Cantelmi Tonino
Il fenomeno degli hikikomori
2024/5, p. 21
Dopo il COVID19 c’è un’altra inquietante etichetta che si appiccica con frequenza ai nostri giovani. È il fenomeno degli hikikomori, dal giapponese ‘isolamento’. Una realtà preoccupante che in Giappone ha già visto più di un milione e mezzo di casi accertati, e che sta dilagando anche in Italia.

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FOCUS SUL MONDO GIOVANILE
Il fenomeno degli hikikomori
Dopo il COVID19 c’è un’altra inquietante etichetta che si appiccica con frequenza ai nostri giovani. È il fenomeno degli hikikomori, dal giapponese ‘isolamento’. Una realtà preoccupante che in Giappone ha già visto più di un milione e mezzo di casi accertati, e che sta dilagando anche in Italia.
Di cosa si tratta? Chi sono gli ‘hikikomori’? Sono adolescenti giapponesi che decidono di vivere nelle loro stanze ipertecnologiche: smettono di studiare, di uscire, di relazionarsi con la società e vivono di connessioni, tecnologia, videogiochi, film e computer. Il problema è che anche in Italia abbiamo adolescenti così, rintanati nelle loro stanze (magari meno tecnologiche dei loro coetanei giapponesi). Certo la società giapponese è davvero competitiva, veloce e selettiva. Si tratta di giovani che abbandonano la competizione: si affacciano sulla soglia e tornano indietro. Non ce la fanno ad uscire, ad affrontare le sfide. Rinunciano. E fatalmente precipitano nel vortice della tecno-mediazione: la loro vita è mediata dalla tecnologia, scudo protettivo e rifugio rassicurante. Ma pagano un prezzo altissimo: l’isolamento dal reale. Tuttavia, la tenaglia tra paura del fallimento, attese di eccellenza e competitività diviene per alcuni giovani giapponesi schiacciante. Nella terra del Sol Levante è probabilmente un fenomeno molto legato alla paura del fallimento e al senso di vergogna.
Una insurrezione digitale
Però già da tempo anche in Italia segnaliamo casi di giovani prigionieri del web e tecno-schiavi delle tastiere. Certo in Italia gli adolescenti che si rinchiudono tra schermi, videogiochi e smartphone e che smettono di uscire, di andare a scuola e di relazionarsi presentano dinamiche diverse, più legate al fallimento e alla desertificazione delle famiglie e all’insignificanza della scuola e degli adulti in genere. Ma il risultato è lo stesso. La tecnologia digitale offre un mondo da abitare, che alcuni ragazzi sentono più rassicurante e dove sperimentano una maggiore abilità: alcuni di loro sono dei veri leader nelle virtual community e nei giochi, hanno successo in rete e sono abilissimi, tanto quanto sono fallimentari nella vita reale. Ma dobbiamo fare un passo indietro e tornare al tempo fatale della pandemia COVID19, che ci ha posto in una clamorosa contrapposizione: da una parte, un tempo sospeso, che ci ha impedito di pensare al futuro in modo progettuale, e dall’altra parte il fenomeno, che potremmo definire «cambiamento-velocità». Tutto ciò è avvenuto così rapidamente che il cambiamento stesso è stato velocità. La pandemia, infatti, ha generato la necessità di cambiamenti velocissimi, adattamenti nuovi, forme di controllo sociale diverse e tecno-mediate, che hanno portato a un uso invasivo della tecnologia, coinvolgendo tutte le generazioni. Insomma, una serie di trasformazioni repentine che hanno investito ogni aspetto della vita sociale, relazionale, economica e lavorativa, come ad esempio il lavoro agile e la didattica a distanza. Proprio in questo periodo, si è realizzata una straordinaria insurrezione digitale, velocissima e senza precedenti. Difatti, la rete/internet accompagna l’umanità da parecchio tempo (la prima mail fu spedita nel 1975!), ma durante il periodo lockdown (confinamento) c’è stato un incremento eccezionale del traffico digitale. In poco tempo abbiamo trasformato un’intera generazione di adolescenti in hikikomori. I ragazzi si svegliavano la mattina qualche minuto prima di collegarsi per la DAD (didattica a distanza), ascoltavano per ore le lezioni online e, in contemporanea, scambiavano messaggi, aggiornavano profili, chattavano e ascoltavano musica in cuffia. Nel pomeriggio videogiocavano, in serata, attraverso i social e le chat, partecipavano ad aperitivi e feste virtuali e durante la notte hanno visto tutte le serie di Netflix.
Disagio emotivo e psicologico
L’insurrezione digitale ci ha inizialmente convinti che la tecnologia fosse in grado di dare delle risposte efficaci, rapide ed economiche alle nostre esigenze, ma nel tempo ci ha fatto anche scoprire qualcosa di ineludibile per l’essere umano, e cioè che tutto questo senza l’incontro autentico con l’altro non ha molto senso. Infatti, in questo periodo la solitudine è divenuta esasperante. A dimostrarlo sono state le periodiche rilevazioni sui giovani, effettuate dal nostro Istituto di terapia cognitivo Interpersonale (ITC Roma), che hanno misurato un incremento della «loneliness», cioè di uno stato emotivo doloroso di solitudine percepita, dovuto a una discrepanza fra le relazioni percepite e quelle desiderate. Si tratta di una condizione di solitudine soggettiva, diversa dalla condizione di essere oggettivamente soli. Il senso di solitudine percepito è stato maggiore in campioni di giovani esaminati nonostante fossero digitalmente immersi in una trama fitta di relazioni. Anzi: più i ragazzi e gli adolescenti analizzati erano smart sui social, più le scale della loneliness (solitudine) si incrementavano. La rivoluzione digitale, nella sua massima insurrezione, ha quindi mostrato anche i suoi limiti. I giovani, durante l’emergenza sanitaria, sono stati una categoria invisibile, di cui invece oggi si parla tanto a causa del disagio emotivo e psicologico che stanno manifestando. Vi è un incremento delle richieste di aiuto e sono aumentati gli atti di autolesionismo e di aggressività. Nell’ultimo periodo questa categoria invisibile ha messo in atto comportamenti che hanno scioccato il mondo degli adulti, pensiamo alle innumerevoli e a volte crudeli risse in molte realtà italiane. I ragazzi hanno sentito la necessità di incontrarsi, attraverso un tamtam social (diffusione di informazioni e opinioni che si trasmesse da persona a persona non attraverso le vie ufficiali di comunicazione: indiscrezioni trapelate rapidamente grazie a un misterioso tam-tam, non per stare insieme ma per picchiarsi e insultarsi). Una rissa emblematica è stata quella del 5 dicembre 2020 al Pincio a Roma. Questi episodi hanno rappresentato un campanello d’allarme: i giovani sono esasperati e delusi, sentono la necessità di farsi ascoltare e vedere, perché bisognosi di relazioni con il mondo dei pari. Ai nostri adolescenti è stata strappata la possibilità di relazionarsi in maniera compiuta, rilassata e aggregante. A loro è stata negata la possibilità di costruire l’identità nel confronto con i pari. E ora irrompe sullo scenario mondiale la guerra, altro evento traumatico in grado di sottrarre futuro proprio ai più giovani.
Superare il trauma generato dal Covid e dalla guerra
Le forme di resilienza e di resistenza sono sicuramente necessarie, ma per affrontare realmente questo periodo di crisi è necessario sviluppare il principio di antifragilità. Per superare il trauma è importante sviluppare delle skills, cioè delle competenze, utili da un punto di vista psicologico anche per l’antifragilità. In relazione al fenomeno cambiamento-velocità, la competenza più importante riguarda la flessibilità psicologica. È una competenza necessaria per gestire le situazioni avverse o le emozioni negative e disfunzionali, in grado di promuovere un più ampio repertorio comportamentale per modificare il decorso della vita quotidiana. Possiamo definire la flessibilità psicologica come misura del modo in cui una persona si adatta alle esigenze situazionali fluttuanti: riconfigura le risorse mentali, cambia prospettiva, equilibra desideri, bisogni e domini della vita in competizione. La flessibilità si basa sul concetto di accettazione della realtà, dovremmo cioè imparare a fare più i conti con i nostri «sé contestuali» e non con i nostri «sé ideali». Questo si traduce nella comprensione e nell’accettazione del contesto (accogliere la realtà e non contrastarla). Nella situazione specifica, accettazione vuol dire capire che è ingenuo ritenere che tutto tornerà come prima.
Sviluppo della compassione
Flessibilità psicologica vuol dire anche ampliamento del repertorio valoriale attraverso lo sviluppo di una delle componenti del sistema accudimento e cura, un istinto di base dell’essere umano, identificabile con la compassione, per sé e per gli altri. La compassione e l’auto-compassione sono, probabilmente, le risposte migliori alle avversità che stiamo vivendo, sono strategie di coping (risposte a situazioni avverse e sfidanti) formidabili per contrastare il disagio psichico e le macerie emotive che il Covid ha disseminato e le guerre stanno amplificando. La compassione è un complesso processo cognitivo, affettivo e comportamentale costituito da cinque elementi: 1) riconoscere la sofferenza; 2) comprendere l’universalità della sofferenza nell'esperienza umana; 3) provare empatia per la persona che soffre e connettersi con l'angoscia (risonanza emotiva); 4) tollerare i sentimenti spiacevoli suscitati in risposta alla persona, rimanendo così aperti e accettando la persona sofferente; 5) essere motivati ad agire per alleviare la sofferenza. Infine, è bene addestrare i giovani a quella che l’Unesco ha definito Future Literacy, cioè l’abilità di sviluppare “il senso del futuro». Essere «alfabetizzati sul futuro» consente ai giovani di utilizzare il futuro per innovare il presente. Iniziamo, quindi, a sviluppare il senso del futuro per riequilibrare il rapporto con la realtà attuale e per accrescere la nostra partecipazione e influenza al fine di costruire il mondo che verrà. Di cosa hanno bisogno, dunque, i giovani: di tecnologie che esasperano il senso di solitudine esistenziale o di adulti autorevoli, compassionevoli e capaci di trasmettere visioni del futuro? Per contrastare la deriva degli hikikomori, che rappresenta solo una fenomenologia appariscente del grande disagio vissuti dai nostri figli, dobbiamo puntare a incrementare flessibilità psicologica, compassione e capacità di futurazione, ad aprire la porta verso il futuro. Questi sono gli atteggiamenti che dobbiamo possedere e trasmettere per contrastare il disagio e la sofferenza dei nostri figli. Cosa fare in definitiva? Sembrerà paradossale, ma occorre ripartire dagli adulti e dalla nostra capacità di affascinare i ragazzi. Il problema è che gli adulti sono deludenti, incoerenti, inaffidabili e troppo preoccupati per se stessi. Verso gli 11 anni, secondo una ricerca che ho condotto per il Movimento italiano genitori (MOIGE), i ragazzini trovano nel web le risposte che non danno più gli adulti. A 14 anni il processo è al culmine: l’adulto è insignificante per la quasi totalità dei ragazzini e il web è il punto di riferimento. Per alcuni ragazzi lo diventa troppo. Sta a noi non lasciarli soli, lì, curvi e ipnotizzati dagli schermi luminosi.
TONINO CANTELMI