Bolognesi Elena
Lungo il mare di Galilea
2023/3, p. 21
Lungo il mare avviene la chiamata dei primi discepoli, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, e, poco più in là, Levi, figlio di Alfeo, sempre lungo il mare. Gesù passa e, passando, chiama. Come il movimento inarrestabile della gloria di Dio, come il vento dello Spirito che soffia e non sai da dove viene né dove va, Gesù passa per «farci passare», per spingerci oltre, perché non ci sfiori il pensiero che seguirlo corrisponda a «trovare un posto» che abbia il sapore e le garanzie della stabilità umana.

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Testimoni
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TEMPO LITURGICO DI QUARESIMA
Lungo il mare di Galilea
Lungo il mare avviene la chiamata dei primi discepoli, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, e, poco più in là, Levi, figlio di Alfeo, sempre lungo il mare. Gesù passa e, passando, chiama. Come il movimento inarrestabile della gloria di Dio, come il vento dello Spirito che soffia e non sai da dove viene né dove va, Gesù passa per «farci passare», per spingerci oltre, perché non ci sfiori il pensiero che seguirlo corrisponda a «trovare un posto» che abbia il sapore e le garanzie della stabilità umana.
C’è un’immagine che sa di visione, un’impressione più che una dettagliata descrizione, che si impone ai pensieri e ruba i sentimenti, ed è quella di Gesù presso il mare di Galilea. O, più precisamente, l’immagine di Gesù che si sposta continuamente lungo le sponde o da una riva all’altra, come spinto da un desiderio e da una inquietudine, da una divina necessità di cui lui stesso non vede nitidamente tutti i contorni. Senza sostare troppo a lungo nello stesso luogo, senza indugiare oltre nella scia di un insegnamento o di una guarigione. E su ogni riva di quel piccolo ma preziosissimo specchio d’acqua trova un volto dell’umanità, in ogni sua luce e ombra. Passa dalla terra della promessa di Dio al territorio della Decapoli, e quindi terra pagana. Sì, perché quel mare è anche linea di confine, breccia attraverso cui aprire l’orizzonte del cuore.
Lo chiamo «mare» seguendo il testo dell’evangelista Marco (thalassa in greco), mentre Luca utilizza il termine più corretto di «lago» (limne). Di certo il riferimento al mare non solo evoca il suo nome in ebraico (Yam Kinneret, mare di Kinneret, in riferimento alla sua forma che ricorda quella di un’arpa, appunto kinneret), ma apre alla ricchezza di significato che la realtà del mare evoca nella letteratura antica e nella tradizione biblica: spazio ostile e di morte, dove sembrano concentrarsi le forze del male, ma anche luogo di confine tra una terra e l’altra, di passaggio da uno stato di vita a un altro (basti pensare al passaggio del Mar Rosso e del Giordano, nell’epopea dell’esodo, dall’Egitto alla Terra della promessa: Es 14 e Gs 3,14-17).
Su ogni riva Gesù incontra attesa, speranza, fede, ma lambisce anche il mistero del male: lo affronta, ne raccoglie la sfida, gli dà un nome, porta guarigione. Propone ai suoi interlocutori di intraprendere un passaggio, di attraversare le ombre del male e ogni mare tempestoso, in vista di un approdo sicuro. Viviamo un tempo in cui il male sembra circondarci da ogni parte, fin quasi a sovrastarci. Forse si può dire lo stesso di ogni tempo. Non solo le catastrofi naturali e le guerre che non tacciono. Ci sono tante forme più o meno sottili di violenza, di prevaricazione sull’altro, anche là dove meno te lo aspetteresti, dove vorresti che proprio non ci fossero: i nostri pensieri e i nostri sentimenti, le nostre comunità, la Chiesa intera, di cui siamo pietre vive. Il mistero del male non risparmia niente e nessuno: è tra le mura della nostra casa, come abitava ogni sponda del mare di Galilea. E allora dobbiamo dire che, sì, probabilmente ogni tempo, ogni generazione è abitata dall’esperienza del male, e forse a cambiare è solo la percezione delle nostre sicurezze, dei rifugi sicuri a cui potersi ancorare, ma a noi spetta di guardare con umiltà la nostra piccola porzione per ritrovare i segni di una speranza che non delude.
Per questo potremmo immaginarci quest’anno l’itinerario quaresimale – sempre tenendo lo sguardo teso verso la Pasqua –, come quel movimento continuo di Gesù, lungo la riva e da una sponda all’altra del lago, cercando per la nostra vita di preghiera e di fraternità una bussola e una carta di navigazione.
Si potrebbero allora riprendere in mano e rileggere lentamente, come se fossimo lì, come se ascoltassimo un racconto che prende vita sotto il nostro sguardo, i primi cinque capitoli del vangelo secondo Marco, l’inizio del ministero pubblico di Gesù, che ruota attorno al mare di Galilea ed è già così denso di avvenimenti e di incontri. Li rileggiamo sapendo che la geografia biblica è geografia dell’anima ed è pagina di vangelo anche per noi, oggi.
Lungo il mare
Nella narrazione di Marco, dopo il battesimo e dopo il deserto della tentazione, Gesù torna subito in Galilea per proclamare il vangelo di Dio e sceglie Cafarnao e il lago come crocevia della sua missione. All’inizio Gesù rimane sulla terraferma, ma è in continuo movimento: cammina lungo il mare, entra nelle sinagoghe, nelle case, si ferma alla porta di Cafarnao, sale sul monte, cerca luoghi deserti per ritirarsi a pregare. Chi cercasse in Gesù uno ieratico maestro, ne rimarrebbe deluso. Come lo ha definito il poeta Bobin, Gesù è l’uomo che instancabilmente cammina e dà l’impressione di cercare i suoi interlocutori uno alla volta, con una barca sempre pronta per la fuga, per non essere schiacciato dalla folla (cf. Mc 3,9), oppure per discostarsi dalla riva quel tanto che basta per essere ascoltato da tutti (cf. Mc 4,1).
Lungo il mare avviene la chiamata dei primi discepoli, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, e, poco più in là, Levi, figlio di Alfeo, sempre lungo il mare. Gesù passa e, passando, chiama. Come il movimento inarrestabile della gloria di Dio (cf. Es 33,19s), come il vento dello Spirito che soffia e non sai da dove viene né dove va (cf. Gv 3,8), Gesù passa per «farci passare», per spingerci oltre, perché non ci sfiori il pensiero che seguirlo corrisponda a «trovare un posto» che abbia il sapore e le garanzie della stabilità umana, come se cercassimo un’occupazione per guadagnarci un’equa mercede. Perché non perdiamo il gusto della creatività: «L’uomo di Dio “passa”, pura sorpresa, inimitabile, imprevedibile, non programmabile, con una semplicità che sconcerta e rivela una creatività inesauribile. Non si può che seguirlo, mai precederlo».
Tra città e deserto
E in questo suo lambire la riva del mare (in Mc 1,16 l’espressione paragōn para si fa persino ridondante nel suo insistere su questo aspetto), Gesù non si preclude alcun sentiero: non quello della città, anche quando ormai è troppo famoso per passare inosservato. Non quello verso la sinagoga, che rappresenta da subito terreno minato e luogo di sospetto se non di scontro aperto. Non quello verso luoghi deserti, dove ritrova l’intima e necessaria solitudine con il Padre, immerso in una preghiera di cui vorremmo anche solo per un istante intuire la smisurata profondità. Ricerca di Dio e ricerca dell’uomo si alternano, si combinano, forse persino si corrispondono reciprocamente, senza soluzione di continuità. Non c’è ricerca di Dio che non spinga a inseguire l’umano e non c’è incrocio di umanità che non porti a sollevare lo sguardo, appello di un disegno più grande capace di dare senso e compimento. Come la cima del monte sul quale Gesù, idealmente, mette in relazione il Padre e i discepoli, perché sia manifesto che si è chiamati per volontà divina, per «restare» e per «essere mandati». Apparente contraddizione, in verità sintesi mirabile della vocazione cristiana. Tra città e deserto.
Passando all’altra riva
E poi d’improvviso, nel momento meno indicato del giorno («venuta la sera», Mc 4,35), arriva il tempo propizio per passare all’altra riva (tra chronos e kairos, come spesso accade, non c’è corrispondenza), per salpare verso terra pagana, così vicina agli occhi e così lontana per ogni altro aspetto della vita. Scelta ardita da parte di Gesù, non perché al tramonto il vento comincia a increspare pericolosamente la superficie del mare. Ardita perché prematura, perché alla prova della tempesta i discepoli di lì a poco mostreranno tutta la paura che può scaturire dalla mancanza di fede.
Forse per questo appena giunti all’altra riva, nel paese dei Geraseni, sembra sbarcare solo Gesù (cf. Mc 5,2). Il Maestro si prende la scena e i discepoli stanno in disparte, spettatori di una catechesi che li riguarda da vicino, pur se in terra straniera, pur se coinvolge un uomo posseduto da spirito impuro. Ecco il mistero del male e non un male qualunque, ma un concentrato altissimo e spaventoso: «Il mio nome è Legione perché siamo in molti» (Mc 5,9). Al punto che Gesù stesso sembra non riuscire a controllare da subito la forza distruttiva dello spirito impuro e finisce per accettare, infine, una sorta di compromesso che gli costerà l’ostilità dei Geraseni: spingere i «molti» verso una mandria di porci.
Sembra concludersi così, con un mezzo insuccesso, questo archetipo di missione ad gentes. Ma i discepoli, che ancora rimangono nell’ombra eppure continuano a raccontarci di questa complicata traversata fino ad oggi, hanno forse compreso almeno due cose. La prima sta nella domanda di Gesù allo spirito impuro: qual è il tuo nome? (cf. Mc 5,9). Domandare il nome significa entrare in relazione nel profondo, significa dare all’altro il diritto di esistere, chiunque sia, a qualunque costo. Perché il nome porta alla luce la nostra origine in Dio insieme al nostro peccato e questi, misteriosamente, convivono. Nel contemplarli entrambi, senza vergogna (né dell’uno né dell’altro), inizia il cammino di guarigione.
La seconda istruzione tocca l’insondabile mistero della preghiera. In terra pagana, Gesù raccoglie tre diverse preghiere: quella dello spirito impuro (parakaléō, Mc 1,10.12) che lo supplica di mandarlo altrove ma di non cacciarlo; quella dei Geraseni (parakaléō, Mc 1,17), che lo pregano di andarsene dal loro territorio; quello dell’uomo guarito (parakaléō, Mc 1,18), che lo supplica di poter restare con lui. Ebbene, l’unica preghiera che sembra rimanere inascoltata è quella che ci appare la più appropriata e legittima ai nostri occhi: Gesù, infatti, non acconsente a prendere con sé l’uomo guarito, pur facendo di lui un missionario.
È tempo di risalire in barca. Al di là del mare, nella terra della promessa, il mistero del male assumerà altre sembianze. E una donna troverà la guarigione sfiorando il lembo del mantello di Gesù. Il viaggio prosegue: quello di Gesù e il nostro dietro a lui. Nel lento apprendistato della sequela, senza lasciare nell’oblio la domanda sul nome e levando lo sguardo della preghiera e della supplica, anche in tempo di oscurità. Lasciando il mare di Galilea, l’urgenza divina spingerà i passi verso Gerusalemme. Torneremo sulle sponde del mare, alla luce di Pasqua, e allora Gesù starà in piedi, fermo sulla riva, ad attenderci per consumare il pasto di una fraternità redenta.
ELENA BOLOGNESI