Cozza Rino
Una vita religiosa che riscaldi i cuori
2019/6, p. 17
In questo momento in cui la vita religiosa, per esserci nel futuro, ha urgente bisogno di «ricominciamento», è necessario che essa si misuri con una sensibilità che le impone di ripensarsi dalle fondamenta.

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Testimoni
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Il punto da dove ricominciare
UNA VITA RELIGIOSA
CHE RISCALDI I CUORI
In questo momento in cui la vita religiosa, per esserci nel futuro, ha urgente bisogno di «ricominciamento», è necessario che essa si misuri con una sensibilità che le impone di ripensarsi dalle fondamenta.
Oggi non si sta assieme per farsi dei meriti o per rendere maggiormente produttivo il lavoro apostolico, ma per arrivare ad amare e sentirsi amati, che significa sentire di avere un significato per gli altri e viceversa sentire che gli altri hanno un significato per me. La fonte della gioia – è detto nell’Enciclica Redemptor hominis n.10 – è nell’amore in cui ha la sua radice la ragione e il piacere di esistere.
Chiamati a una maggior
trasparenza del cuore
Cuore significa tutto ciò di cui ha bisogno chi è desideroso di vita: affetto, accoglienza, sentimento, tenerezza, che indicano la pienezza dell’umano, l’armonia del vivere, la misura alta dell’uomo che è Gesù Cristo. «Elementi fondamentali, il cui abbandono distruggerebbe l’uomo stesso». In questo sta l’identità del religioso/a, nell’essere trasparenza esemplare di una persona che vale quanto vale il suo cuore, senza risvolti egoistici, capace di quell’amore e di quell’ amicizia che rende colma e bella la vita degli altri e sua. E questo per affermare che l’amore di Dio non può essere espresso unicamente in termini teologici ma anche con le ragioni del cuore, come forma gioiosa dell’amore, espresso nel farsi fratelli sorelle, padri, madri da parte di persone chiamate ad essere in qualche misura «maestri della sapienza del cuore», non per oscurare la ragione ma per un supplemento di realtà.
Si è soliti pensare che il rinnovamento passi attraverso il «riordinare» ciò che abbiamo nella testa, (princìpi, norme, certezze), o ciò che abbiamo nelle mani (attività, istituzioni). Oggi dopo esserci spesi in questo per oltre cinquant’anni e ritrovandoci con tanti frutti che fanno stridere i denti, finalmente scorgiamo la via d’uscita nel «riordinare» il cuore con scelte che di esso siano limpida trasparenza.
La verità degli affetti
problema religioso
Urs von Balthassar disse: «La vita cristiana non è etica ma estatica». Vale a dire che «Dio non ci seduce con la sua eternità ma con la bellezza dei gesti d’amore di Gesù Cristo».
L’esodo della teologia dai sentimenti, dagli affetti – scrive E. Ronchi – ha fatto sì che tanti depositari del sacro non sappiano più aiutare le persone a gestire la solitudine, la sofferenza, la disperazione, la follia, il mistero della vita.
Gli spazi di impegno apostolico devono proporsi come luoghi dentro i quali queste tematiche devono trovare non solo sollecitazioni ma anche realizzazioni di annuncio quotidiano; spazi per scelte dove l’incontro, prima o al di là che con il bisogno cui rispondere (didattico, assistenziale, cultuale ecc.), avvenga con il cuore delle persone per poter rispondere alla ricerca e all’inquietudine che accompagnano la vita, con il sedersi accanto, con il vivere la vicinanza senza impadronirsi della libertà altrui, pur indirizzando e sostenendo le persone nella decisione; che bandisce ogni dottrinarismo che consideri la legge più importante dell’uomo concreto; che sa stare sulla soglia cioè non far violenza al «sé originario» che precede ogni ulteriore identità; che aiuta a diventare ciò che uno è in verità, unica strada verso la felicità. E questo è un modo migliore del precedente, quello di essere non tanto i gestori del sacro o essere l’anima sociale dei nostri territori ma essere persone che entrano nel territorio attraverso vissuti relazionali intensi, segno di una comunione diversa, con una prossimità all’uomo contemporaneo che ci invita ad abbandonare posizioni elitarie che in passato esercitava, per essere invece fratello con i fratelli, cercatore con chi cerca, compagno di strada.
Per questi motivi non è finita la vita religiosa, ma c’è il pungolo ad essere nuovi entro questa storia per dare una risposta altrettanto innovativa, passando dall’essere esperti nel “predicare” ad esperti dell’ascoltare, condividere, dialogare per poter dire al fratello, che sta cercando di ancorare la vita: vieni che cerchiamo assieme.
Una formazione
per modellare il cuore
Certamente nella vita religiosa c’è stata formazione alla disciplina, alla dottrina, all’ascetica, alla religiosità, ai ruoli e alle funzioni, ma – dice il Papa – «chi cerca e propone sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla sicurezza dottrinale ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante». Ma se «i ministri del vangelo (i religiosi/e) devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte»… allora nei seminari dobbiamo formare il cuore, «altrimenti formiamo dei piccoli mostri. E poi questi piccoli mostri formano il popolo di Dio. Questo mi fa venire davvero la pelle d'oca».
Formare a partire dal cuore, significa innanzitutto offrire ai singoli la possibilità di conoscersi dentro, in profondità per rinnegare quello che non appartiene a loro, cioè il «falso io», strutturato dagli altri ai fini di una conformazione funzionale, fonte di tante finzioni: la pace e l’equilibrio interiore provengono soltanto dalla armonizzazione di tutto l’uomo. Allora formare ad un cammino di «perfezione» significa aiutare a «perfezionare», cioè portare a maturità quello che è vero nel profondo di sé, per far sì che la sequela non diventi una farsa.
Testimoni di un diverso
vivere, fare, agire
Il documento della S.Sede, “Ripartire da Cristo”, dice che «le persone consacrate sono obbligate a cercare nuove forme di presenza e a porsi non pochi interrogativi sul senso della propria identità». Da tutto ciò scaturisce la domanda: qual è, alla fine, la «vera identità» della vita religiosa dato che la storia ce ne ha tramandate troppe? Nella sua lunga storia, la vita religiosa è incorsa nel pericolo di frammentarsi e dissolversi in ridotte rappresentazioni e ristrette funzioni ed essere identificata soprattutto da queste. All’inizio c’è stato un tempo in cui i religiosi/e erano riconosciuti per ciò che rinunciavano: monachesimo e rinuncia erano talmente legati che i monaci erano chiamati renuntiantes. Dopo vari secoli si portarono a essere identificati e apprezzati per la loro presenza in molteplici aree di bisogno, per finire a trovarsi arenati in una fase di debolezza sia per povertà di intelligenza spirituale, sia a motivo delle ormai deculturate funzioni storiche.
Già Giovanni XXIII scriveva: «sul quadrante della storia è venuta l’ora in cui la Chiesa deve dire di sé ciò che Cristo di lei pensò e volle». Dirlo innanzitutto attraverso una relazionalità umana piena di ascolto, vicinanza. Ciò che marca la persona nel suo intimo, può essere mediato solo nel quadro dei rapporti sociali empatetici cioè dialogici. Questi sono i presupposti che permettono la costruzione di una comunità di fede attenta al riconoscersi dai volti. Dunque una prossimità non vissuta solo attraverso prassi istituzionali, ma da fratelli e sorelle, cioè gente interessata a ciò che è «indispensabile» alla vita e non ad una adesione generica a valori e principi altisonanti ma lontani, espressi con un insieme di gesti, riti e osservanze senza profondità e senza calore; comunità fatta di gente che tenda ad essere testimone di una Chiesa che è «custodia di energia e amore, di generosità e altruismo, di vitalità e di bellezza».
Come rendere
percepibile Cristo?
Circa il «come» per rendere efficace l’annuncio, il Papa scrive: «Chi predica parli ai cuori evitando moralismo e l’indottrinamento»; «Il Vangelo non si annuncia con le bastonate, ma con la dolcezza e l'amore».
Oggi la modalità conoscitiva della gente, non solo dei giovani, è prevalentemente esperienziale con persone concrete e vicine, per cui non si comunica da maestri attraverso scambi formali specie se difesi dalla maschera del ruolo, ma da compagni di viaggio, fratello con i fratelli, cercatore con chi cerca.
Dice ancora il papa: «La Chiesa è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa». Per far intravedere questo la vita religiosa ha da proporsi quale spazio in cui poter vivere e far trasparire il volto bello dell’essere Chiesa: «una Chiesa che ascolti prima di parlare, che accolga prima di giudicare, che ami questo mondo prima di difendersene, che si nutra di creatività piuttosto che di paura, che sappia annunciare piuttosto che accusare».
Inoltre, circa «che cosa» annunciare, il Papa invita in particolare ad offrire di Cristo l’immagine di un cuore riverso sulle fragilità, (misericordia) non verdetti ma emozioni attraverso un cammino che esprima gesti di tenerezza, con il dire agli “affaticati”: nonostante tutto io sono con te, amo la tua solitudine, il tuo cercare, amo le tue lacrime e la tua debolezza: non c’è nulla della tua vita che mi lasci indifferente. Questo modo di porsi all’interno della comunità portava l’apostolo Paolo a dire: «noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede, ma essere collaboratori della vostra gioia».
In quest’ora della storia abbiamo delle opportunità bellissime, basterebbe sdoganare Gesù Cristo per impossessarci del cuore di questo Dio che è con noi anche lungo i sentieri in cui ci smarriamo; che guarisce la vita e la fa ripartire; colui che non si ferma alle fragilità dei giorni sbagliati ma vede tracce di sé e segni di bontà in ognuno perché per Lui, la persona non coincide con il suo errore, con il suo passato ma con il suo futuro carico di nuove possibilità.
Rino Cozza csj