Mandreoli Fabrizio
UNA PROSPETTIVA “MITICA”
2019/2, p. 16
La categoria “popolo di Dio” esprime la fondamentale uguaglianza e dignità di tutti nella Chiesa in quanto battezzati, con un ripensamento radicale degli assetti interni e del rapporto tra ministri e battezzati.

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Il popolo nel pensiero e nella prassi di Papa Francesco
UNA PROSPETTIVA
“MITICA”
La categoria “popolo di Dio” esprime la fondamentale uguaglianza e dignità di tutti nella Chiesa in quanto battezzati, con un ripensamento radicale degli assetti interni e del rapporto tra ministri e battezzati.
Con le importanti dimissioni di Benedetto XVI e l’elezione di Francesco come vescovo di Roma nel marzo 2013 per molti osservatori si è entrati in una nuova fase di recezione del Concilio Vaticano II. Una fase in cui idee, prospettive e prassi maturate intorno all’ultimo Concilio sono state riprese e rivalorizzate. Per taluni temi si è trattato di una sorta di emersione carsica dopo anni di messa tra parentesi nel discorso ufficiale ecclesiale. Tra questi vi è sicuramente l’acquisizione conciliare fondamentale della Chiesa intesa come popolo di Dio. Una prospettiva che sappiamo nata dalla volontà di valorizzare:
a) la dimensione storico salvifica della Chiesa;
b) la connessione tra l’economia antica e quella nuova con il recupero della dimensione intrinseca della relazione con il popolo ebraico;
c) l’imprescindibile dimensione storica della vita ecclesiale intesa come un popolo che cammina nella storia in possesso della promessa ma in cerca della patria e della verità dispiegata. La categoria popolo di Dio utilizzata come descrizione fondamentale della Chiesa ha voluto dire anche un recupero della fondamentale uguaglianza e dignità di tutti i membri della Chiesa in quanto battezzati, con un ripensamento radicale degli assetti interni e del rapporto tra ministri e battezzati. Ripensamento che si radica ad un livello teologico spirituale davvero profondo ossia nella capacità profetica connessa al battesimo e quindi al senso della fede di tutto il popolo di Dio. Queste prospettive estremamente feconde sono – grazie all’impulso del magistero in parole e gesti di Papa Francesco – tornate ad essere prospettive trainanti e fecondanti il cammino delle Chiese locali e della Chiesa intera. Su questo molto si è scritto: sul legame tra Vaticano II e Papa Francesco, sulla storia della Chiesa sudamericana – in particolare di quella argentina – che è stata l’humus di maturazione di molte convinzioni bergogliane, sulle radici gesuitiche e ignaziane delle sue riflessioni teologiche, sulle dimensioni europee di alcune sfumature del pensiero/prassi del Vescovo di Roma. Rimandando ad altri contesti – ci permettiamo di ricordare l’uscita di La teologia di Papa Francesco. Fonti, metodo, prospettive e conseguenze presso le Dehoniane – per un approfondimento e una ricostruzione attenta di questa serie di questioni e processi, che coinvolgono la Chiesa del XX e di questo inizio di XXI secolo, ci pare utile concentrarci qui su una dimensione specifica e innovante: l’apporto di Bergoglio al tema del popolo di Dio. Si tratta del modo con cui Bergoglio rappresenta esente la tematica del popolo. In diversi passaggi, in reazione soprattutto ad un’interpretazione ideologizzata o dall’alto della vita del popolo, Papa Francesco esprime l’idea che il concetto di popolo è un concetto mitico. Cosa intende per mitico?
Popolo
parola mitica
In un’intervista con Dominique Wolton, l’attuale vescovo di Roma afferma: «la parola “popolo” non è una parola logica. È una parola mitica. Non si può parlare di popolo logicamente, perché sarebbe fare unicamente una descrizione. Per capire un popolo, capire quali sono i valori di questo popolo, bisogna entrare nello spirito, nel cuore, nel lavoro, nella storia e nel mito della sua tradizione. Questo punto è veramente alla base della teologia detta “del popolo”. Vale a dire andare con il popolo, vedere come si esprime. Questa distinzione è importante. Il popolo non è una categoria logica, è una categoria mitica».
Si tratta, dunque, di un concetto che non si esaurisce logicamente, nel senso che non può essere appreso solo razionalmente o asetticamente, ma ad un livello esistenziale che è nello stesso tempo personale e collettivo. Come intendere qui l’espressione mito? Credo si possa dire che si tratta di un racconto capace di fornire un senso inteso nella triplice accezione di questo termine: come a) significato, b) direzione, c) modo di percepire e sentire. Questo racconto – questo mito – crea un orizzonte di comprensione della realtà sia a livello personale sia a livello di comunità e collettività. Il mito esprime un modo sensato di affrontare l’esistenza facendosi carico in maniera responsabile della vita. Siamo qui al livello di quelli che Lonergan chiama «significati costitutivi»: quei significati che mediano e danno senso al rapporto con la realtà da parte dei singoli, delle comunità e dei popoli. «La comunità non è puramente una quantità di uomini entro frontiere geografiche. È l’opera del significato comune». Il mito è inteso come una tradizione dentro la quale si è collocati con tutta la propria storia e che permette di orientarsi dentro la vita, lo spazio e le vicende. In tale quadro di pensieri Bergoglio afferma, in modo del tutto coerente, che per capire il popolo bisogna “andare con il popolo”, immergersi in esso per capire come pensa, come sente, come si esprime.
Legami sociali
e culturali
Nella prima intervista con la Civiltà Cattolica, Bergoglio sviluppa una serie complementare di considerazioni: «C’è una parola molto maltrattata: si parla tanto di populismo, di politica populista, di programma populista. Ma questo è un errore. Popolo non è una categoria logica, né è una categoria mistica, se la intendiamo nel senso che tutto quello che fa il popolo sia buono o nel senso che il popolo sia una categoria angelicata. No! È una categoria mitica, semmai. Ripeto: mitica. Popolo è una categoria storica e mitica. Il popolo si fa in un processo, con l’impegno in vista di un obiettivo o un progetto comune. La storia è costruita da questo processo di generazioni che si succedono dentro un popolo. Ci vuole un mito per capire il popolo. Quando spieghi che cos’è un popolo usi categorie logiche perché lo devi spiegare: ci vogliono, certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza al popolo. La parola popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica. Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento, difficile, verso un progetto comune». Bergoglio specifica, oltre all’importante tema dell’appartenenza e dell’impegno comunitario, il tema del processo che coinvolge il popolo e lo costruisce dall’interno. Si chiarifica ulteriormente il significato di mito: esso non è una costruzione artificiale e senz’anima, ma una costruzione che ha determinate dinamiche e valori storici (inclusivi della fragilità, dell’alterità e dei poveri) con precise responsabilità personali e generazionali, infatti “diventare un popolo […] richiede un costante processo nel quale ogni nuova generazione si vede coinvolta. È un lavoro lento e arduo che esige di volersi integrare e di imparare a farlo fino a sviluppare una cultura dell’incontro in una pluriforme armonia”(EG 220). Tale visione del popolo non è romantica o idealistica: la vita del popolo è piena di rimozioni, contraddizioni e violenza, per questo serve un atteggiamento e una prassi costruttiva. Ciò che più si oppone a tale costruzione di un racconto comune – dentro al quale è possibile vivere, identificarsi e camminare verso il bene – è un quadruplice atteggiamento: la violenza ideologica o idealistica che schiaccia o rimuove la realtà, il negare il conflitto o il lasciarsi intrappolare da esso, il cancellare o assolutizzare le parzialità personali o culturali, il preoccuparsi di occupare gli spazi – di potere, di ricchezza, di cultura e di influenza – trascurando la vita delle persone alla base e i processi di maturazione più lenti e laboriosi ma con più capacità di trasformare durevolmente l’animo umano e le strutture nella direzione dell’autenticità. “A volte mi domando chi sono quelli che nel mondo attuale si preoccupano realmente di dar vita a processi che costruiscano un popolo, più che ottenere risultati immediati che producano una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana” (EG 224). La rilevanza di tale prospettiva è davvero ampia e può essere capace di fecondare vari aspetti della vita della Chiesa e anche delle nostre società. Papa Francesco parlando sul tema del Sinodo nell’ottobre 2015 ha affermato che «Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell'ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l'uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo «Spirito della verità» (Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli «dice alle Chiese» (Ap 2,7). […] Alla vigilia del Sinodo dello scorso anno affermavo: «Dallo Spirito Santo per i Padri sinodali chiediamo, innanzitutto, il dono dell'ascolto: ascolto di Dio, fino a sentire con Lui il grido del Popolo; ascolto del Popolo, fino a respirarvi la volontà a cui Dio ci chiama». È chiaro: se il racconto che permette di identificarsi nel popolo e di far crescere il popolo nel senso della verità e della giustizia è un racconto che deve coinvolgere tutti nella propria integrità – ragione, sentimenti, emozioni, immaginario, relazioni e azioni – non può che essere un processo collettivo di ascolto a più livelli. Qualsiasi altro modo di procedere sarebbe, anche se nei tempi brevi apparentemente più efficiente, alla lunga inefficace e non interiormente persuasivo. L’adottare tale prospettiva con i suoi correlativi quattro principi – il tempo è superiore allo spazio, il tutto alla parte, la realtà sull’idea, l’unità prevale sul conflitto,– crediamo che avrebbe la capacità, non velleitaria, di aiutare in una serie di questioni urgenti: nel compito di una nuova inculturazione storica, in una capacità rinnovata di confronto con le nuove generazioni, in una valorizzazione del vissuto umano e spirituale di molti che abitano le nostre città e faticano a riconoscersi nelle strutture della Chiesa attuale, in una crescita nel dialogo interno alla comunità dei credenti, in un lavoro più incisivo nella difesa della giustizia e dei poveri in tempi in cui il racconto collettivo – che sembra prevalere a livello politico italiano ed europeo – va in direzioni sempre più accecate, irresponsabili e violente. Serve infatti un racconto per cui tutti noi “possiamo prendere dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare” (LS 19).
Fabrizio Mandreoli