Cozza Rino
Rigenerarsi per poter rinascere
2018/9, p. 21
Serve una Chiesa – e dunque anche una vita di consacrazione – capace di nuova immaginazione e perciò capace di ripensare se stessa all’interno del nuovo contesto culturale che oggi si propone come stagione di potatura e di alleggerimento, di fantasia.

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Testimoni
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Le glorie passate non servono più
RIGENERARSI
PER POTER RINASCERE
Serve una Chiesa – e dunque anche una vita di consacrazione – capace di nuova immaginazione e perciò capace di ripensare se stessa all’interno del nuovo contesto culturale che oggi si propone come stagione di potatura e di alleggerimento, di fantasia.
Già Gregorio Magno alla fine del ‘500 avvertiva di ciò, dicendo che “Roma in se ipsa marcescit”, intendendo dire che «tutto ciò che non si rigenera, degenera».
Un tempo non si pensava che la pura conservazione dell’esistente portasse all’estinzione, perché si riteneva che nella vita religiosa, come nella Chiesa, tutto fosse perenne, essendo creduto “senza macchia e senza ruga”, e non una realtà “semper reformanda” come disse Giovanni XXIII. È stato così che la vita religiosa, chiusa nelle sue paure e nella sua gloria passata, cedendo alla presunzione di possedere tutta la verità, è andata avanti creandosi un tipo di pensiero che fatica ad imparare qualcosa di nuovo, per cui risponde spesso con il già saputo. A fronte di ciò, il Papa dà una indicazione: «serve una Chiesa – e dunque anche una vita di consacrazione - capace di nuova immaginazione e perciò capace di ripensare se stessa all’interno del nuovo contesto culturale» che oggi si propone come stagione di potatura e di alleggerimento, di fantasia.
Dunque per la vita religiosa sarebbe illusorio e auto-lesivo non riconoscere le proprie fragilità dovute alla fatica di sentirsi sfidata ad essere parte viva delle grandi trasformazioni della storia, ritrovandosi meglio nel pensare il mondo costruito su codici immutabili, e nell’ostentare i motivi della sua immutabilità piuttosto che la sua precarietà, inconsapevole che «chi non muta quando tutto muta alla fine diventa muto».
La crisi che stiamo vivendo, non impedisce tuttavia il futuro, anzi ne è la condizione, ma solo se saprà guardare bene nelle pieghe degli eventi, accettando le profonde e ineluttabili purificazioni delle figure storiche “consumate” facendo del momento presente la fucina che la predispone, affinando, bruciando, purificando, eliminando, essenzializzando.
Rinuncia
a schemi obsoleti
«Nessun cambiamento è possibile senza la rinuncia a schemi obsoleti»
Schemi obsoleti sono quelli in cui la vita si sente soffocata. Per ovviare a ciò servono nuovi spazi, nuovi approcci, nuovi linguaggi. che esprimano pratiche di nuova umanità. Diversamente succede che i destinatari di carismi si portino a «perdere drammaticamente profezia e generatività, e da custodi di un carisma diventare contenitori di ciò che resta del primo evento profetico». Da qui l’invito: «Non abbiate paura di lasciare gli otri vecchi». Il Papa non perde occasione per ribadire questi concetti e penso sia perché ha l’impressione che molti religiosi/e non riconoscano d’essere entrati, irreversibilmente, in un periodo in cui molte delle immagini tradizionali della vita consacrata non tengono più. Pensano che il carisma sia riposto in ciò cha ha saputo realizzare, piuttosto che in ciò che porta a “sognare” quel qualcosa che può immettere nelle cose un progetto evangelico più grande dell’oggi. A tal fine servono interpreti della inventiva di Dio come lo furono i Fondatori. Gli inizi di questi, ci raccontano di ricerca, di intuizioni, di audacie vissute da donne e da uomini che hanno avuto a cuore il sogno di Dio in un mondo nel quale i carismi istituzionalizzati andavano perdendo la freschezza del vangelo. Sulle orme di questi gli Istituti sono ora chiamati a «proteggere la propria libertà di nomadi, con tende facili da arrotolare e trasportare altrove».
Occorre un’identità
in progresso
I carismi hanno bisogno di “identità in progresso”. Non siamo più nel tempo in cui il futuro lo si riceveva totalmente in eredità dal passato per cui tutto, di fatto, era in funzione della «conservazione» piuttosto che della immaginazione. I processi di significazione sono all’interno della storia corrente. Allora il punto da cui ripartire è di riconoscere la transitorietà della forme di altri tempi, perché inadeguate alla costruzione di persone che siano «creature nuove» nell’oggi. La vita è evoluzione per cui le persone per realizzarsi umanamente e spiritualmente devono modificarsi; quindi non dobbiamo avere paura di rinnovare quelle abitudini e quelle strutture che nella vita consacrata riconosciamo come non rispondenti a quanto Dio ci chiede oggi, per far avanzare il suo regno nel mondo». Da qui il mandato ad «uscire», vale a dire ad «andare oltre», scoprendosi prigionieri di un presente angusto. Nella vita religiosa serve allora gente vegliante in libertà sulle strade attraverso cui il futuro si inserisce nella storia, con forme comunitarie non orientate a se stesse, tendenti a essere una istituzione nell’istituzione, ma realtà sparse nel mondo per poter essere chiaro annuncio di un nuovo tipo di società fraterna ed egualitaria in cui le persone tornino a contare di più dei principi immaginari, e le sue norme più che una dottrina sopra le righe, siano una modalità di essere cristiani dentro la vita degli uomini, espressa con il linguaggio di coloro a cui ci si rivolge, non essendo più adeguato quello delle nostre origini, datato storicamente e teologicamente, chiuso nel suo saputo di cui gli artefici sono stati coloro che erano orientati alla fuga dal mondo.
Uscire significa inoltre che non sono sufficienti modalità di presenza portate a fare missione in casa propria (opera), al cui fine sono stati creati strumenti, servizi, strutture: così sono gli altri a dover venire da noi. È necessaria piuttosto una vita consacrata capace di uscire da se stessa per andare “verso gli altri”, cercando strade evangelicamente più efficaci e nel contempo umanamente più significative, perché nate dalla capacità (carisma) di guardare il mondo con occhi diversi, da parte di persone che coltivino e attivino anche quelle dimensioni fondamentali dell’umano, che rendono la vita degna di essere vissuta.
Il tempo presente invita dunque a ridimensionare l’importanza degli apparati per mettere al primo posto risposte impastate (lievito) con quelle delle altre vocazioni che formano la Chiesa decostruendo le proprie mitizzazioni, senza accontentarsi di risposte accomodanti in un mondo sempre più complesso e disorientato.
Dunque per questa generazione la prospettiva di sopravvivenza è quella che nascerà da una situazione inedita, conseguente alla capacità di mettersi in gioco senza ripetizioni del passato. La rottura, la discontinuità è nei fatti, è nella storia la quale non ha dogmi ma è continuamente revisionista.C’è rigetto della storia quando non si ha il coraggio di andare per le strade che la novità di Dio offre o quando ci si difende serrati in strutture mentali caduche che hanno perso la capacità di accoglienza del nuovo, vale a dire la capacità di reinventare la vita con ciò che essa oggettivamente mette a disposizione.Uscire infine perché molta parte della generatività, energia, forza dipendono dal contatto con altre umanità, culture, vite, altre prospettive: in ciò sta la fecondità. In questo momento sembra invece che la maggior parte dell’impegno che molti Istituti propongono, sia quello di «assicurare un passato che sempre ritorna alla memoria quasi con malinconia», ma «è una ben povera memoria quella che funziona solo all’indietro». In ogni caso questa non basta a nutrire al presente la nostra identità.
Forme di governo
inadeguate
È avvenuto che nella sua storia la vita religiosa ha fatto proprie, acriticamente, quelle forme di presidio – vale a dire di governo – che la Chiesa, altrettanto acriticamente, si era data, mutuando dalle forme a struttura costantiniano-gerarchiche. Ma per essere un progetto evangelico le serve invece un tipo di autorità che non sia quello derivante dal diritto romano, secondo il quale l’autorità basta a se stessa, ma una autorità esercitata come servizio alla fraternità e come tale atta a promuoverne, coordinarne e autenticarne le iniziative, avulsa da ogni dirigismo arcaico. Tutto ciò sta a dire che non è più possibile mantenere in piedi quella situazione che si è creata in altri tempi in base ad altri presupposti.
Al presente c’è voglia e necessità di chi, nel servizio dell’autorità non si accontenti di gestire l’istituzionale; ma di persone che abbiano fatto il passaggio da una autorità che preserva se stessa (l’istituzione) servendosi delle persone, ad autorità a servizio delle persone, perché queste, oggi molto più di ieri, sono interiormente libere e responsabili della propria vita, e non suddite. È questo il significato evangelico di autorità meglio espresso con il termine “diakonia”, che J.Vanier traduce così: «è riconoscere il dono dell’altro, aiutare ad esercitarlo e ad approfondirlo perché una comunità è bella quando ognuno esercita pienamente il suo dono». Dunque l’esercizio di leadership è evangelico se si pone in «funzione sussidiaria», vale a dire «non a partire dall’idea che l’istituzione, venga prima della persona; che la risposta venga prima della domanda; che la legge venga prima della coscienza».
Il problema allora non è “normare” ma “ispirare”; non è innanzitutto disciplinare, ma offrire senso. Purtroppo, però la vita religiosa fa fatica a produrre senso senza produrre norme, specie se alla sua difesa sono preposti dei garanti della legge con funzioni notarili cui non spetta (così pensano) la coscienza autocritica ma la funzione di scudo protettivo che a un certo punto, per mancanza di presa nel presente, può diventare – e di fatto diventa – una camicia di forza che blocca la crescita e chiude il futuro.
Ecco la straordinaria conversione: proporre senso senza richiuderlo. Un senso che dia respiro. La vita evangelica non avanza per divieti o per obblighi, ma per attrazione, come ricostruzione di significati che aiutino a far sintesi tra il conosciuto e le domande tipiche di questa epoca.
Che cosa le serve?
Che cosa le serve per essere percepita come «l’abbraccio di Dio per l’umanità?» I carismi non sono dati per essere «conservati come in una bolla», forti del proprio consolidato quasi che la vita con il suo continuo divenire non c’entri.
L’evidenza che gli attuali orizzonti fatichino a portarci alla vita, sta nel fatto che quando nei solchi di una data cultura una qualsiasi forma di vita va perdendo la forza riproduttiva, significa che l’energia seminale datale per continuare a essere ciò per cui è nata, la sta abbandonando. La storia ci insegna che per tenere limpido un ideale non bisogna fissarlo in una nicchia e che negli incroci più importanti dell’umanità bisogna essere presenti con tutta la fedeltà creativa della evangelica “bella notizia”, trovando, in funzione di futuro, tratti diversi e nuovi, rispetto al passato, accettando che nel giardino di Dio nascano continuamente nuovi fiori.
In tutto ciò siamo inadempienti. Non interpella il fatto che le esperienze incuriosenti e appellanti, da prima del Concilio in poi, sono nate al di fuori di tutti i progetti e supposti strumenti di riforma (ad esempio i Capitoli) messi in atto dalla vita religiosa?
La sua credibilità dipenderà da come riuscirà a sviluppare attorno a sé nuove forme religiose, e all’occorrenza anche sociali, di vita trasparentemente evangelica, quale mistica dagli occhi aperti sugli appelli della storia, oggi diversi da quelli di ieri, con uno sguardo che sappia incrociarne anche le suppliche inespresse.
Allora, se la vita religiosa vuole intercettare le attese su di essa riposte, deve offrire un diverso approccio all’esperienza carismatica e una diversa sensibilità verso le inquietudini dell’uomo post-moderno che è già tra noi, senza continuare testardamente a «cercare scorciatoie per sfuggire alle sfide che oggi bussano alle nostre porte».
Rino Cozza csj