Cabra Piergiordano
Don Battista e il Maestro
2018/9, p. 4
Anche da Papa, padre Bevilacqua lo chiamava don Battista e quando poteva, gli faceva delle visite. Era nelle ore serali che le amenità e le battute dell’anziano maestro creavano un clima distensivo, sollevavano l’animo del pontefice dalla pesantezza delle gravose preoccupazioni. Il Padre era atteso con simpatia anche dalla “famiglia pontificia” dei segretari e delle suore che lo accudivano.

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DON BATTISTA E IL MAESTRO
Anche da Papa, padre Bevilacqua lo chiamava don Battista e quando poteva, gli faceva delle visite. Era nelle ore serali che le amenità e le battute dell’anziano maestro creavano un clima distensivo, sollevavano l’animo del pontefice dalla pesantezza delle gravose preoccupazioni. Il Padre era atteso con simpatia anche dalla “famiglia pontificia” dei segretari e delle suore che lo accudivano.
Si narra che in una di queste serate tra il Papa e il suo venerato maestro si sarebbe svolto un dialogo singolare, che illustra bene la confidenza e la stima reciproca. A un certo punto della conversazione, Paolo VI, si alza, prende due stole di diversa fattura e, rivolto all’ospite, gli chiede: “Padre, vorrei fare un regalo a un cardinale, ma sono incerto quale di queste due stole sia la più conveniente. Che ne dice”? “Se è uno che capisce qualche cosa, gli darei questa, che sembra vecchia, ma è preziosa”. “Allora, questa è per Lei”: “No, don Battista, non farmi questo scherzo”. “Qui, Padre, è il Papa che lo desidera”. Il Padre allora si inginocchia confuso, mentre il Papa gli impone la stola, dicendo con un largo sorriso: “Così, Padre, imparerà a non scherzare troppo sugli stracci rossi dei cardinali!”. Se non verificabile, è altamente verosimile.
Lo scrittore francese J. Guitton affermava che Montini aveva in Bevilacqua un “Maestro incomparabile e un amico singolare” e che “Ognuno onorava l’altro, rispettando nell’altro una vera superiorità”.
Bevilacqua è sempre stato un ispiratore, sempre nella fedeltà e nella discrezione. Mai nessuno l’ha sentito vantarsi di aver dato suggerimenti all’Arcivescovo di Milano o al Papa.
Da parte sua, Paolo VI lo ricorderà come un santo: “Se non ci fosse tutta quella cornice di buon umore e di ‘follia’ filippina, con cui si è sempre rivestito, noi potremmo dire, e qui ve lo diciamo, un santo” (Paolo VI alla comunità di Isola della Scala).
Due personalità alquanto diverse: Bevilacqua irruente, incisivo come uno scultore, dal linguaggio libero, persino scanzonato, Montini controllato, riservato, attento al gesto e alle sfumature, da pittore di ampi affreschi.
Si erano incontrati all’Oratorio della Pace, dove stava imponendosi il giovane veronese Giulio Bevilacqua, appena laureato in sociologia in Belgio, accolto tra i Padri della Pace non senza qualche perplessità, ma dalla fede granitica, per il quale, come dirà un suo compagno di prigionia, “due sole cose contano, Cristo e la realtà : e bisogna farle incontrare”.
L’adolescente Giovanni Battista si ritrovò subito in quel binomio programmatico facendone il filo conduttore della sua esistenza e della sua missione, in tutte le tappe della sua “carriera”, sempre preoccupato di far incontrare Cristo con il mondo contemporaneo, fino all’ ultimo giorno.
La stima e venerazione degli anni giovanili divenne comunanza di idee, di giudizi, di prove, che si consolidarono in una profonda amicizia. Entrambi non gioirono l’11 febbraio del 1929, all’annuncio della Conciliazione, ma entrambi si diedero da fare per preparare la classe dirigente per il postfascismo.
E quando il passo dell’incontro tra Cristo e la realtà sembrava troppo arduo o arrischiato, ecco che don Battista chiedeva lumi al maestro stimato per il suo aggiornamento culturale, ma soprattutto perché esperto conoscitore della realtà quotidiana, a partire da quella dei giovani, da lui seguiti anche nelle due guerre tra gli alpini sull’Ortigara e in prigionia, e poi sulle corazzate .
E il Padre lo incoraggerà sempre ad osare, ad allungare il passo, a non aver paura di rischiare, “perché le idee valgono per quello che costano”.
Di fronte allo sgomento, a seguito della nomina ad arcivescovo di Milano, il Padre scrive: “Caro don Battista, Milano ti darà finalmente la grande gioia del lavoro pastorale in grande e a contatto con una vita che non ha diplomazie ma brutalità, ma nella quale pulsa ancora la realtà, l’evidenza, la ricchezza della grazia (…) Appena sarai diventato una macchina per benedire, riservane anche per il vecchio e duro amico”.
Poi venne il “vespaio” del Concilio, valutato subito positivamente dal “vecchio e duro amico”, che lo prospettò come un dono, anche se impegnativo, dello Spirito alla sua Chiesa e al mondo.
Il Maestro premeva sull’acceleratore delle riforme, proprio mentre la Curia premeva sul freno, tanto è vero che in alcuni ambienti, ostili alle innovazioni, la scomparsa di Bevilacqua fu considerata la rimozione di un ostacolo alla conservazione delle “sane tradizioni”.
Il Maestro voleva tener vivo lo spirito di papa Giovanni e la sua visione profetica.
A chi si meravigliava perché nella sua canonica rimanesse esposta la fotografia di papa Giovanni, anche dopo l’elezione di Paolo VI, rispondeva semplicemente che “quello lì è il più grande Papa del nostro secolo. È il Papa del Concilio”.
Quando fu fatto cardinale, a un ufficiale degli Alpini, già suo collega nell’esercito, che, ben conoscendolo, gli esprimeva la sua meraviglia perché aveva accettato, rispose: “Per tre motivi: per poter partecipare al Concilio, per mettere il naso dove frati e suore fanno i loro santi, ma soprattutto per non lasciar solo Quello lassù!”.
Sì, il Maestro era preoccupato della crescente solitudine del suo don Battista, strattonato a destra e a manca dalle varie correnti del Concilio, che pur guidava con mano ferma. Gli stava vicino con l’affetto di un padre e con la devozione trepidante e vigile di un figlio.
La sua scomparsa aumentò la solitudine di don Battista, al quale erano riservate le prove più dure, affrontate con il coraggio che aveva ammirato nel vecchio maestro.
Piergiordano Cabra