Mayer Hofbeck Karoline , Claros Ramos Ana de Jesus
La forza della preghiera
2018/6, p. 39
La preghiera è l’anima della vita cristiana e soprattutto della vita consacrata. È anche il termometro per misurare la qualità della vita di una comunità e della vita fraterna. Con la preghiera tutto fiorisce, senza, la vita religiosa si debilita, la comunità si dissolve e poco alla volta si spegne anche la fede.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
testimonianze di vita vissuta
LA FORZA
DELLA PREGHIERA
La preghiera è l’anima della vita cristiana e soprattutto della vita consacrata. È anche il termometro per misurare la qualità della vita di una comunità e della vita fraterna. Con la preghiera tutto fiorisce, senza, la vita religiosa si debilita, la comunità si dissolve e poco alla volta si spegne anche la fede.
– SPERIMENTARE DIO NELLA VITA COMUNITARIA
Si tratta di essere dei cercatori
Quando parliamo di esperimentare, la prima cosa che viene in mente è “provare”, fare esperienza di, e se confrontiamo i termini nel loro significato vediamo che fare esperienza ci rimanda a “una pratica prolungata che dà conoscenza o abilità. Con questo articolo siamo invitati ad addentrarci in una pratica prolungata nel tempo, come è la preghiera comunitaria, ma con la particolarità che non è qualcosa di meccanico, di routine ma il luogo dell’incontro con Dio il quale perché ci ama, ci chiama.
Perciò non possiamo addentrarci nel tema come chi cerca delle ricette, ma come chi cerca realmente Dio.
La vita consacrata è chiamata ad essere cercatrice di Dio; già san Benedetto lo diceva ai suoi monaci: monaco non è colui che ha trovato Dio ma colui che lo cerca per tutta la vita. Credo perciò che è a partire da questo dinamismo vitale che possiamo porci per parlare del fare esperienza di Dio nella preghiera comunitaria.
In comunità…
Molte volte abbiamo ascoltato e pregato il testo della Parola che dice: “Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli glielo concederà. Perché dove son due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18, 19-20). Riuniti nel suo nome, è questa la ragione del nostro vivere in comunità; non siamo noi a sceglierci, è lui che ci sceglie (Mc 3,13), e ci riunisce per stare con lui e per inviarci (Mc 3,14). Il nostro vivere in comunità si comprende soltanto in base a una esperienza di fede in Dio comunione che ci chiama ad essere segni di questa stessa per gli altri. Perciò, la comunità diventa scuola di comunione non per il fatto di vivere insieme ma per il desiderio di ciascun consacrato di cercare Dio, di imparare da lui ed essergli fedeli nel tessuto della quotidianità di ogni giorno, vissuto in questa chiave: cercatori di incontro.
È da questa certezza che acquistano significato i ritmi comunitari e che è bello viverli con consapevolezza. Siamo chiamati alla vita, per questo iniziare la giornata insieme in comunione con tutta la Chiesa è il primo momento di incontro; sentire palpitare il mio fratello che ringrazia per il dono della vita, far passare attraverso la memoria del cuore il cammino di tanti e farlo nostro in ciascun salmo, poter pregare con il cuore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo mi dispone a cercare con gli altri Dio che è in mezzo al suo popolo e rinnova questo desiderio di voler compiere la sua volontà, il suo progetto per ciascuno di noi.
“La prima occupazione della comunità dei consacrati è aiutarsi a rimanere sorpresi ogni giorno del dono di amore di Dio; aiutarsi a leggere l’esistenza in base a questa rivelazione dell’Amore”.“La preghiera del religioso e della religiosa si esprime in un unico movimento di carità verso Dio e verso il prossimo” (PC 6).
La comunità diventa luogo di grandi apprendimenti; di fraternità, perdono, sguardo misericordioso e di tenerezza; è in Gesù e da questa scuola di vita che impariamo a scoprire le tracce di Dio nell’altro, dove facciamo esperienza e troviamo spazio di incontro.
Se questo avviene, ogni consacrato esperimenta che i momenti comunitari sono importanti, scopre di averne bisogno; la preghiera comunitaria diventa allora un’esperienza di riposo che sostiene nel cammino e apre all’altro, al più vicino e al più lontano. Perciò quanto è bello chiudere la giornata insieme davanti al Signore, ringraziando per tutto ciò che si è vissuto, condividendo con i fratelli tutte le situazioni in cui egli ci ha sorpreso con la sua presenza.
Dio è un Dio degli incontri, perciò, quanto più facciamo esperienza di incontri vitali, fraterni, incoraggianti che aiutano a crescere, Dio è lì in mezzo con tutto il suo amore per fortificarci e farci camminare nella gioia della sua presenza.
Facendo esperienza di Dio
Tutti abbiamo senza dubbio un’esperienza di Dio. Molte volte non possiamo esprimerla con parole, ma è stata tanto forte da indurci ad abbracciare un’opzione vocazionale come è la vita consacrata.
Per alcuni può essere stata una parola, un gesto, una persona, un momento determinato e vitale, da cui derivarono, senza dubbio, decisioni e prese di posizione sia nell’ordine di ciò che volevamo essere sia in quello che volevamo fare. Non siamo solo persone che credono in Dio, o che parlano di Dio, siamo persone che ci siamo sentite mosse da Dio, abbiamo fatto l’esperienza di incontro con lui in qualche momento della nostra vita e questa fa sì che viviamo oggi in una determinata maniera.
Parlare di “esperienza di Dio” è parlare dell’essenziale, di ciò che è basilare, del primo amore… è parlare di gratuità, di dono, dell’amore di Dio per ciascuno. Tuttavia, questa esperienza di Dio deve essere alimentata perché possa continuare a crescere, acquistando profondità. Non sempre abbiamo questa attenzione, di aggiungere legna al fuoco perché rimanga acceso. Per questo con dispiacere vediamo che alcuni rimangono più a un ricordo, un desiderio, un enunciato teorico che non in una risposta all’Amore che si fa storia, cammino condiviso.
Viviamo in tempi complessi, in cui il ritmo veloce delle cose, la tentazione dell’onnipresenza, il sentirci indispensabili per il fatto di essere pochi ci porta a un individualismo, a un conformismo e a una certa ambiguità, al mercanteggiamento più che alla generosità, non per cattiva volontà, né perché eravamo insoddisfatti dei nostri desideri. Viviamo in una società che a volte lascia fuori Dio, perché le sue domande fanno rumore, vanno contro certi interessi.
Molte volte le nostre fragilità personali, comunitarie e sociali si intrecciano. Di alcune siamo coscienti e ci costa superarle: o non sappiamo come farlo o non possiamo; oppure non ci aiutiamo e non ci lasciamo aiutare per riuscirci. Di altre non siamo nemmeno coscienti, ma ciò non significa che esse non agiscano. Per aiutarci è necessario prendere coscienza delle difficoltà della nostra esperienza di Dio, di quelle dinamiche personali o comunitarie che forse, senza saperlo o pensarlo, non lo facilitano. E anche per proporre modi di vivere, dinamiche, suggerimenti che ci aiutino a mantenere viva in noi questa esperienza di Dio, che è la fonte della nostra gioia e che papa Francesco ci invita continuamente a donare.
Sentire Dio giorno dopo giorno è per ciascuno un dono, un regalo che ci viene fatto senza nostro merito. Non è una risposta ai nostri meriti, non è un premio alle nostre azioni. È sentire che l’alleanza che Dio ha fatto con ciascuno e ciascuna di noi è reale e si rende presente nel quotidiano. Un impegno che Dio mantiene per sempre perché egli ama e rispetta le sue creature e non gioca con loro né le manipola. Tutto questo ci parla dell’amore di Dio, ma ci parla anche della sua libertà e del suo mistero.
Per quanto strano possa apparire, si può essere persone che pregano molto e tuttavia servirsi di questo comportamento come pretesto per rinunciare ad essere oranti. Quando in contrasto con il loro vero significato, le preghiere diventano per il credente pio un assoluto della sua orazione, e non si cerca il dono di veder cambiato l’atteggiamento interiore, ma il protagonismo unico di un fatto meritorio che si deve compiere, le nostre orazioni finiscono col bloccare la vera preghiera. Gesù denunciò questo atteggiamento nei farisei ripetendo le parole di Isaia: “Questo popolo mi onora con le sue labbra, mentre il suo cuore è lontano da me” (Is 29,13; Mc 7,6) e l’avvertimento pare non perdere mai di opportunità. A volte avviene che si assolutizzino indebitamente queste pratiche. Si prende come assoluto il valore dei modi, delle maniere, dei tempi… Quelle che potremmo chiamare “pratiche di pietà” più che una ricerca di Dio, diventano un motivo di autogiustificazione e di attribuzione di meriti, un alibi per evitare o entrare in altri approcci e nel paragone e il giudizio degli altri. Insisto nuovamente: non per le pratiche in se stesse ma per l’atteggiamento e il modo con cui si compiono.
Si può pensare che qualcosa del genere avvenga quando la preghiera assomiglia a un “encefalogramma piatto”, senza essere toccata dalle crisi, dai problemi e le emozioni di ogni giorno… Shakespeare nell’”Amleto” le chiama “parole senza sentimento”. Penso anche che qualcosa del genere succeda se nella vita della persona che prega non c’è desiderio né desideri, ma il suo stato è quello dell’indifferenza di fronte a tutto, di atonia, del lasciarsi portare, di pigrizia… E, molto radicalmente bisognerà interrogarsi sulla verità di una esperienza di Dio, dei molti momenti in cui preghiamo insieme, delle numerose riunioni che facciamo o dei documenti che leggiamo insieme, se nella persona che prega non c’è misericordia verso il fratello o la sorella, perché se c’è qualcosa che il Dio di Gesù contagia colui che si avvicina a lui è il sentimento di profonda misericordia. In senso positivo, intendo dire che non solo le pratiche o le strutture di preghiera aiutano la vita personale, comunitaria, apostolica… se la vita non entra in esse, se si isolano dalla vita, se si formano scompartimenti stagno tra vita e comunità, vita e preghiera, vita e orazione, queste pratiche possono pervertirsi. Voglio dire, insomma, che per essere accoglienti e aperti all’esperienza di Dio non solo bisogna pregare (cosa ovvia) ma che bisogna ascoltare il fratello, lasciarsi accompagnare, servire gli altri, gustare i doni della vita, lasciarsi toccare dalle sofferenze del mondo, gioire dei segni di speranza che possiamo trovare…
Quando la comunità perde qualità, l’esperienza di Dio ne viene intaccata. Cosa intendo per “perdita di qualità” della vita comunitaria? Non solo i gravi deterioramenti, le tensioni forti o l’apatia di qualcuno dei membri, mi riferisco anche ad altre situazioni meno eccezionali e più quotidiane che, purtroppo sono più frequenti nelle nostre comunità: la superficialità nelle relazioni, i patti impliciti di non aggressione affinché nessuno entri nella vita di nessuno, almeno faccia a faccia, frontalmente, ed è più abituale la critica dietro le spalle che non la correzione fraterna; l’assenza o il formalismo nei momenti di riunione o di preghiera in comune o le riunioni senza scambio; l’inibizione rispetto ai compiti comuni. Quando si vive una vita comunitaria di bassa qualità rimane intaccata e danneggiata la possibilità dell’esperienza di Dio dei membri di questa comunità. Non solo in senso generale, nel senso che la qualità della vita diminuisce, ma anche perché queste situazioni vengono “danneggiate”, poco alla volta si deteriorano le zone e le capacità della persona importanti nel saper avvertire e accogliere il dono personale e sempre nuovo di Dio. Ne enumero brevemente alcune: chi vive e soffre queste situazioni crede sempre meno nella mediazione del fratello per quanto riguarda l’esperienza di Dio. Non solo perché è meno aperto e accogliente verso ciò che il fratello o la sorella possono apportarci di Dio, ma perché si indebolisce e si riduce al minimo la convinzione che Dio ci possa parlare o ci stia parlando attraverso i fratelli e le sorelle concreti della comunità. Ne deriva una convinzione malsana che in fin dei conti, al di là delle teorie più o meno belle, il rapporto con Dio è cosa di Dio e mia. Quando si pensa così, finisce col succedere che io sono il protagonista che fa dire a Dio ciò che voglio ascoltare e finisco per non lasciare spazio al Dio vero: mi prescrivo io ciò di cui ho bisogno per sopravvivere. È inevitabile che il rimanere in situazioni di bassa qualità comunitaria finisce con intaccare ognuna delle persone nella sua capacità di autentica e matura relazione interpersonale. Si alimentano “vizi” a cui tendiamo in questo campo: l’insincerità, la mancanza di trasparenza, le relazioni interessate sia di potere o di dipendenza, l’individualismo, tendere al minimo in qualsiasi forma di impegno, ecc. Questo modo di rapportarsi con gli altri finisce con l’intaccare inevitabilmente il nostro modo di essere in relazione con Dio: a mio parere, è impensabile che una persona immatura nel suo rapporto con gli altri possa avere una relazione matura con Dio. Con il Dio che ci vuole liberi, autonomi, e fiduciosi in lui.
E quando nel contesto di una situazione comunitaria deteriorata, l’esperienza di Dio è sottoposta a difficoltà estranee, siano interne o esterne, la persona non solo non trova sostegno, anzi il suo scoraggiamento o scetticismo si aggravano. La persona che vive una situazione comunitaria di bassa qualità non solo si trova più impoverita, ma anche più vulnerabile.
Al contrario, in una situazione comunitaria positiva, (realisticamente positiva, senza sognare paradisi comunitari che non esistono) ci si sente più grati, più capaci di riconoscere i doni della vita, di vedere nei fratelli la bontà e la vicinanza di Dio, più allegri, più aperti alla sua presenza, più forti nei momenti difficili…
Ci sono luoghi preferenziali per l’incontro con Dio, ora e sempre. Uno di questi, credo il luogo per eccellenza è la persona umana, l’altro. Si è detto finemente che l’altro, e in particolare l’altro che escludiamo, il differente, l’estraneo, lo straniero è la metafora di Dio; l’altro ci rende visibile Dio; io non vedo né continuo a vedere altra cosa che lui, ma è in questo volto che riconosco, che Dio comincia a parlare, si può ascoltare. Detto con le parole stesse del vangelo, nella misura in cui io “mi faccio prossimo” (Lc 10,36) dell’altro, specialmente di colui che è caduto ai margini della strada, scoprirò Dio. Ma per scorgere Dio nell’altro bisogna farsi prossimo, bisogna fare dell’altro un interlocutore… è per questo che ci costa tanto incontrare Dio in coloro che ci circondano: perché il più delle volte nella nostra relazione con gli altri pesa di più ciò che ci distingue, ciò che ci separa e ci rende estranei; siamo indifferenti, lontani e non ascoltiamo perché spesso non trattiamo l’altro come fratello, ma come concorrente o nemico. Quando dimentichiamo il povero, non solo compiamo un atto disumano o ingiusto, ma neghiamo a noi stessi la possibilità di essere radicalmente cristiani, di essere prossimi e sprechiamo il luogo più evangelico per sentire nella nostra vita l’accoglienza del Signore (Mt 25,34).
Rimanere inquieti
Il papa Benedetto XVI diceva: “il cuore inquieto è quello che non si conforma in definitiva a nulla se non a Dio, diventando così un cuore che ama (…). Ma non solo siamo inquieti noi esseri umani in rapporto a Dio. Il cuore di Dio rimane inquieto in rapporto all’uomo. Dio ci aspetta, ci cerca. Non si stanca mai di trovarci. (…) Dio è inquieto nei nostri riguardi, cerca persone che si lascino contagiare dalla sua stessa inquietudine, dalla sua passione per noi”.
Credo che qui ci sia una chiave per continuare a riflettere, per poter ogni giorno donare ai giovani la freschezza di una vita consacrata gioiosa che cerca e si lascia trovare dal Signore nelle coordinate della storia che è dato loro di vivere.
Oggi come ieri il Signore continua a chiamare i giovani, ma i giovani di oggi ci chiedono di essere cercatori inquieti di Dio nella vita quotidiana, capaci di gioia e di fraternità.
Provinciale suore di Maria Ausiliatrice
dell’Uruguay