Cozza Rino
Uscite da un mondo virtuale!
2018/6, p. 24
Oggi sono molti a dirsi stanchi di sentirsi presentare come attuale ciò che non lo è; come sostanziale ciò che è formale; come “rivelato” ciò che è soltanto storico. Ci sentiamo stanchi di parole senza significato, abbiamo raggiunto un punto di saturazione in quanto a dichiarazioni.

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Testimoni
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Richieste dei giovani d’oggi ai Capitolari
“USCITE DA UN MONDO
VIRTUALE!”
Oggi sono molti a dirsi stanchi di sentirsi presentare come attuale ciò che non lo è; come sostanziale ciò che è formale; come “rivelato” ciò che è soltanto storico. Ci sentiamo stanchi di parole senza significato, abbiamo raggiunto un punto di saturazione in quanto a dichiarazioni.
«Abbandonate il vostro mondo di realtà virtuali»: è questo l’invito che un gruppo di giovani religiosi e religiose sente di dover rivolgere ai/alle capitolari di varie congregazioni e ordini che stanno preparando i capitoli provinciali e generali nella prossima estate. Richiesta che risuona come eco di altre varie espressioni, non recenti, di una teologa: «ci sentiamo stanchi di parole senza significato, abbiamo raggiunto un punto di saturazione in quanto a dichiarazioni, documenti e teorie sul carattere specifico della nostra identità».
Queste espressioni mettono in evidenza che si sta facendo sempre più forte la consapevolezza che vivere perché ormai si sono prese determinate abitudini di pensiero e di vita non è verità reale ma solo simulazione di essa.
Oggi sono molti a dirsi stanchi di sentirsi presentare come attuale ciò che non lo è; come sostanziale ciò che è formale; come «rivelato» ciò che è soltanto storico. Da qui le espressioni: «Non impegnatevi nel continuare ad offrire risposte preconfezionate che ormai sono superate».
«Le nostre certezze – ebbe a dire l’allora card Bergoglio – possono diventare un muro, un carcere che imprigiona lo Spirito Santo», con il pericolo di portarci ad essere «semplici cultori o cultrici di tradizioni inutili, quasi degli attori da teatro, o illusi “messia” di un avvenire puramente inventato a immagine e somiglianza di quello che abbiamo sempre fatto e già capito. È chiaro che in questo modo non possiamo parlare di vita e, tanto meno, della sua insita religiosità». Da qui l'urgenza di por mano decisamente alle fondamenta della vita religiosa, vale a dire al sistema culturale che l'ha finora caratterizzata, per riportarla alla capacità di dare risposte di «senso» all’essere e all’agire del religioso/a d’oggi che per la sensibilità culturale corrente, in molti aspetti è altro da quello di ieri.
L’identità non è
quella giuridica
«Rallegratevi se siete rimasti senza parole per definire la vostra identità». Siamo al punto che la vita religiosa fatica a dare ragione di se stessa a partire da sé, ha bisogno di nuovi orizzonti di senso, consapevoli che stiamo vivendo una fase di necessaria, paziente rielaborazione di tutto ciò che ne costituisce il patrimonio, vale a dire la sua identità, quella che le è data innanzitutto dal riconoscersi gente abitata dal desiderio di assumere in qualche misura l’attitudine di Gesù guarente, sanante. Allora l’identità non è quella giuridica ma quella della vita che è qualcos’altro da una adesione generica a valori e principi altisonanti ma lontani, espressi con un insieme di gesti, riti e osservanze senza profondità e senza calore. La vita religiosa rimarrà viva se saprà non farsi paralizzare da una identità istituzionalmente predefinita una volta per tutte. Questa non è vera identità, per il fatto che quella reale è l’esito di un processo della storia, che di conseguenza non ha termine. L’invito «a esplorare vie nuove per attuare oggi il Vangelo nella storia», viene dal sinodo sulla vita consacrata (VC 84), consapevole che per essere trovata credibile e appetibile nel suo ruolo profetico, la vita religiosa, nata dal custodire l’evangelicità della vita, deve riuscire a creare nuovi schemi, in funzione degli appelli della storia, in termini di dignità delle persone, e di impegno con gli umiliati, attraverso comunità che diano attualità, presenza, incidenza storica al Vangelo. Si tratta di scoprire le forme che oggi lo Spirito sta indicando, per diventarne collaboratori: è questo l'unico modo che le è dato «per essere a casa nel tempo».
Evidenze evangeliche
non etichette
«Oggi l’attenzione non è sulle «etichette» ma sulle evidenze evangeliche». Importante non è ciò che proclamiamo, ma quello che viviamo», per cui alla domanda «perché la Vita Religiosa?» non è più possibile rispondere con definizioni teologiche, in un tempo in cui le nuove forme discepolari rispondono con la vita in atto, cioè con il mostrare quanto viva sia l’azione dello Spirito Santo, piuttosto che dall’evidenziare riconoscimenti storici e giuridici. «Mi attendo da voi – dice papa Francesco – che oggi sappiate creare “luoghi dell’anima” – dove si vive la logica evangelica, del dono, della fraternità», vale a dire dove ognuno – religioso/a e laico/a – possa sentirsi a casa, quale spazio in cui avviare l’integrazione tra fede e vita per fare del Vangelo il punto fermo della crescita delle persone.
L’invito a uscire viene a dire di «lasciare le vie di quelle epoche in cui il pensiero era chiuso, rigido, istruttivo-ascetico invece che mistico», e la religiosità era irretita in consuetudini svuotate della loro sostanza per non aver colto che il cristianesimo è nato dal rifiuto di ciò che nella religiosità è estraneo al Vangelo.
Che cosa intende dire papa Francesco con il mettere in guardia dall’essere una chiesa chiusa, ripiegata su se stessa, e dunque una chiesa malata? Intende dire che l’essersi «serrati», ci ha fatto perdere contatto con la nostra vera missione originaria. Infatti Gesù non ha creato mondi a parte, gruppi avulsi, alla maniera di quella degli «esseni», ma un modo d’essere posto all’orizzonte di nuove esperienze di relazione, attraverso cui poter incontrare innanzitutto l’umanità nostra e quella degli altri, prima della «funzione», cioè del nostro fare.
Soltanto successivamente, sulla spinta dell’istintiva religiosità di alcuni gruppi, la vita religiosa si è portata ad essere di tipo sacrale, assumendo così un profilo monastico e poi clericale, che non l’ha aiutata nella comprensione della sua origine, del suo significato e della sua vera funzione, portandola spesso a essere un collettivo umano chiuso, bisognoso delle «dimensioni più armoniche della vita», pensando che per esprimere la comunione bastassero relazioni scandite in incontri funzionali, istituzionali, professionali. È questo il motivo per cui oggi ci troviamo con forme apostoliche impoverite, proprio perché non fecondate dalla sana contaminazione delle relazioni umane; forme che ci hanno portato a essere soltanto funzionalmente in mezzo agli altri rimanendo però soli, e in quanto soli più propensi alla stagnazione che alla generatività.
La vita di un insieme di persone chiamate alla fraternità, per essere trovata credibile e desiderabile deve riuscire a proporre inediti schemi non “sigillati”, aperti a Dio, al mondo, alla storia, ripensata anche in funzione dei laici chiamati a partecipare alla stessa spiritualità, prendendo le distanze da se stessa, da un certo stile, da un determinato linguaggio, da un dogmatico quanto inattuale universo concettuale.
È possibile uscire dall’attuale precaria situazione riproponendo innanzitutto un nuovo tipo di vita collettiva quale società fraterna ed egualitaria all’interno di un pluralismo di modelli di comunione che assumano le caratteristiche, la cultura, i valori umani e religiosi di un dato popolo e territorio, al cui interno i religiosi e le religiose si facciano viandanti con coloro che camminano e cercatori con coloro che cercano. Una tale forma di vita collettiva non deve accontentarsi di equiparare la vita comune con la vita fraterna. Mentre per la vita comune è sufficiente vivere vicino agli altri, per la vita fraterna si è richiesti di vivere vicendevolmente gli uni per altri: sia l’identità che l’unità di un gruppo (comunione fraterna), non sono dati da un elemento istituzionale, ma da un senso di appartenenza che passa attraverso i rapporti personali. Se per la vita comune (abitare insieme secondo le stesse norme) di fatto può bastare il coabitare, per la vita fraterna, cioè per l’essere fratelli, l'importante è invece il tipo dei rapporti, l’aiuto vicendevole, la valorizzazione del ruolo attivo di ciascuno e la convergenza degli intenti. È attraverso questo che ci si rende conto di avere un significato per gli altri, e viceversa sentire che gli altri hanno un significato per noi: solo da ciò può nascere il desiderio di offrirsi per un progetto che supera gli ambiti puramente individuali e che nel contempo non esoneri dall’assumersi fino in fondo le proprie responsabilità.
Diversamente è difficile che venga ritenuta un’appellante vita fraterna ciò che è solo una vita di conformità pianificata in cui prevale l’aspetto di collettività su quello comunitario-fraterno, avulsa dalla maturazione delle nuove istanze che vanno meglio ad esprimere compiutamente la persona.
La persona alla luce
della post-modernità
Nel cristianesimo «non c’è santificazione senza umanizzazione». Se i religiosi/e hanno ancora difficoltà a trovare nuovi modelli di vita è perché «la concezione della persona umana sottesa alla visione e alla prassi di vita consacrata non è ripensata alla luce della post-modernità». Di conseguenza non attraggono più quei modelli di vita che faticano a muoversi in armonia con le aspirazioni profonde delle persone, perché improntati talvolta a conoscenze teorico-dottrinali del mondo platonico o stoico, tenute assieme da documenti, dichiarazioni, teorie, tendenzialmente omologanti di cui si è soltanto ricettori, silenziosi esecutori.
Veniamo dal tempo in cui i consacrati/e erano attraenti per l’aureola di santità che si attribuiva ad alcuni loro modi di essere e fare, ma oggi non bastano atteggiamenti che rimandano prevalentemente al sacro, ma quelli che invitano a vivere in pienezza l’oggi con l’acquisire quella bellezza dell’esistere che raccoglie i sogni che Cristo aveva, e che dischiude orizzonti impensati di una gioia, che sia riserva di lieta notizia: differente, ma ugualmente incremento di vita, intensificazione dell’esistenza.
Nel futuro vivranno quindi quelle forme che saranno in grado di modellare la vita religiosa in profili, non unicamente “sacro-formali” e tantomeno “aziendali”, ma quelle rispondenti alle domande profonde di una spiritualità capace di dare risposte all’attuale domanda di senso in contesto di quella contemporaneità che porta con sé frutti umani di alto interesse valoriale che chiedono di essere assunti, perché rispondenti, in tanta parte, all’insegnamento del Vangelo espresso con meno retorica teologica ma più armoniosità di vita. È attraverso l’armonia entro di sé che sperimentiamo la salvezza nell’oggi. È questa che fa innamorare e suscitare il desiderio di vivere da consacrati, diversamente da quel tempo in cui bastava l’appartenenza ad un «venerato» impianto gerarchico a soddisfare il bisogno identitario della persona. E poi, soltanto quando uno sta bene è pronto a rinunciare a un bene parziale a favore dell’insieme. Se l’evangelismo non sarà un qualcosa di riscontrabile come bella gioiosa notizia anche per l’oggi, sarà soltanto una realtà virtuale e come tale incapace di far mettere in moto le persone «per nuovi passaggi affinché gli ideali e la dottrina prendano carne nella vita, cioè nei sistemi, strutture, diaconie, stili, relazioni e linguaggi».
Si tratta dunque per la vita religiosa di una ri-evoluzionaria riforma che per essere una vera, concreta realtà non virtuale, – è detto nel documento “Per vino nuovo in otri nuovi” – ha inoltre la necessità di una riconsiderazione della teologia della vita consacrata nei suoi elementi costitutivi».
Rino Cozza csj