Hausman Noëlle
Trasfigurazione e terapia
2018/4, p. 41
All’interno di un impegnativo seminario sulla «consacrazione religiosa» (cf. articolo a p. 1) suor Noëlle Hausman è intervenuta con un taglio di teologia antropologica. Contro il gender per affermare la vita consacrata come terapia spirituale per l’umanità.

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La consacrazione religiosa e la condizione umana
Trasfigurazione e terapia
All'interno di un impegnativo seminario sulla «consacrazione religiosa» (cf. articolo a p. 1) suor Noëlle Hausman è intervenuta con un taglio di teologia antropologica. Contro il gender per affermare la vita consacrata come terapia spirituale per l'umanità.
La vita consacrata, approfondimento del battesimo e frutto dei sacramenti, professione dei consigli evangelici in memoria del Signore che viene, mostra nella Chiesa la bellezza di una chiamata e di una risposta in cui brilla per sempre la gioia di Dio.
Impostazione teologica e antropologica
Dopo il punto di vista biblico e la memoria storica, vediamo uno dei contributi che la teologia può dare sotto il profilo del diritto canonico. Ricordiamo che dal Concilio Vaticano II e dai suoi Decreti attuativi, il testo del Magistero più autorevole resta l'esortazione apostolica Vita consecrata del 1996, frutto del Sinodo generale del 1994, che ha fatto compiere progressi decisivi su alcuni punti ormai acquisiti: ciò che la consacrazione vissuta nella vita consacrata ha di specifico rispetto alla consacrazione battesimale, il carattere fondamentale delle tre vocazioni ecclesiali "paradigmatiche", la pratica della castità votata a Dio solo come porta d'ingresso alla vita consacrata; ma soprattutto l'esortazione ci offre l'icona della Trasfigurazione come luogo teologico primario di una vita tanto inutile quanto preziosa, come il profumo di Betania. Non dimentico tuttavia le pagine che il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992 ha dedicato alla "vita consacrata per mezzo della professione dei consigli evangelici" (§ 915-945), secondo l'espressione precisa della Perfectae caritatis (vitae per consiliorum professionem consecratae) che speriamo sia ormai totalmente recepita.
Considerando dunque le cose dal punto di vista dell'antropologia teologica, comincerò col ricordare la situazione attuale dell'uomo e della donna (1); occorrerà dire qualche parola sulla teoria del "gender" e di ciò che implica (2); poi tornerò alla vita consacrata come vita battesimale (3) prima di presentare, in una prospettiva antropologica rinnovata, i consigli evangelici (4) che Vita consecrata descrive alla luce della vita trinitaria, anche come risposte comunitarie alle sfide del mondo contemporaneo – punto sul quale i teologi potrebbero essere più assertivi nel prossimo futuro.
L'uomo
e la donna oggi
Un punto cruciale per la sopravvivenza della nostra cultura è la scelta che ognuno può e deve fare della propria identità sessuale. Nel momento in cui le donne assomigliano sempre di più agli uomini e, di riflesso, gli uomini assomigliano sempre di più alle donne, ci si può chiedere se le dinamiche narcisistiche, omosessuali, infantili dell'onnipotenza da strappare all'altro (parlo da donna) non abbiano coinvolto, in molti aspetti, la vita consacrata e sacerdotale. Da questo punto di vista, uno dei problemi più difficili che sorgono per la Chiesa non è solo quello del ruolo delle donne, ma anche quello dello spazio lasciato ancora agli uomini in tutti gli ambiti della vita pubblica, ecclesiale o familiare.
La situazione generale, su questo punto, sembra quella di un rifiuto della paternità, innanzitutto da parte delle donne.
La questione della donna (nella Chiesa e nella società) è, in effetti sollevata dall’uomo che non riconosce più la "carne dalla sua carne e osso dalle sue ossa" (Gn 2,23)
Nell'adottare quasi letteralmente il modello maschile nell'educazione, nella vita professionale e affettiva, e persino nell'abbigliamento, la donna ha certamente ottenuto, nei Paesi più sviluppati, una parità di diritto, se non di fatto, rispetto agli uomini suoi coetanei e del suo ambiente. Ha anche accettato però che la sua identità profonda e la sua differenza con l'uomo siano per così dire cancellate, e rimandate al passato (mia madre e mia nonna hanno potuto, ma io non voglio più) o al futuro (quando sarò disponibile, potrò...) della propria storia femminile.
Il risultato di questa sospensione appare in particolare nella diminuzione drastica del numero di figli nelle famiglie, fatto accertato che dimostra fino a che punto la donna ha rinunciato alla maternità in cui dovrebbe compiersi la sua vocazione nativa (1 Tm 2,15), ma che indica anche l'origine della sofferenza di molti uomini che sentono la mancanza della paternità. Per essere come lui, la donna impone all'uomo di essere meno se stesso. E l'uomo con una specie di affetto a ritroso, concede alla donna l'accesso con lui nel mondo narcisistico in cui ognuno rende l’altro infecondo a forza di assomigliarsi.
Altre epoche hanno probabilmente conosciuto il regno dell'uomo ai danni della donna, e altre culture hanno forse compiuto, al contrario, il dominio della donna sull'uomo. Oggi però c'è la minaccia di un'altra violenza, quella in cui l’uomo e la donna sono inghiottiti l'uno dall’altra, in nome della parità dei ruoli e delle funzioni, tra cui quelle sessuali. Una tentazione alimentata dal genio medico, in particolare con le prodezze della bioetica, ma che il demografo denuncia perché è un suicidio per la civiltà.
Sta invece alla donna dare l'uomo a se stesso rendendolo sposo e padre, e all’uomo dare la donna a se stessa, nell'amore e nella maternità. Queste semplici verità risuonano in tutta la Bibbia. Quando l’uomo non può più essere padre, perché la donna non vuol più essere madre, è la paternità stessa di Dio che è rifiutata e, con essa, l'unione indissolubile dell'uomo e della donna, nel rispetto e nell'amore. La nostra civiltà è senza padre e senza madre perché è senza Dio – un ateismo pratico che sembra aver un dominio tranquillo, e che la teoria del gender rafforza. Sebbene non sia per nulla una specialista dell'argomento, non posso tuttavia non ricordare tale teoria in un contributo che s'interessa all'antropologia della vita consacrata.
"Fare il proprio gender"
o impegnarsi nell'incarnazione?
La teoria del gender, ispirata da Judith Butler, il cui pensiero ha avuto importanti sviluppi, può essere presentata in forma di tesi che riassumo come segue: In un essere umano il genere è diverso dal sesso: il sesso è dettato dalla biologia e dalla fisiologia, il genere deriva dalla cultura e dalla costruzione psichica.
– Il genere è costruito, si fa attraverso atti, non ha una propria essenza, né maschile, né femminile.
– L’io “gendered” non esiste in modo stabile (il gender è fluido) incarna (embodiment) le possibilità di un soggetto che diventa oggetto del suo atto.
– L'attrazione per il sesso opposto è una congiunzione di costruzioni culturali, governate dalle convenzioni sociali che hanno come scopo il controllo della riproduzione (la quale è una costruzione seconda rispetto alla nostalgia della fusione con il genitore dello stesso sesso).
– Il sistema binario del gender è dunque una pura costruzione storica; per mettere fine all'oppressione dei ruoli predeterminati, bisogna adeguarsi a un'altra visione del mondo in cui gli atti, il corpo visibile e i suoi attributi corporei non esprimono nulla di una presupposta identità profonda preesistente.
– Insomma, il gender è un atto performativo, che realizza e costituisce il suo oggetto e il suo agente.
Mi sembra di cogliere un ritorno alla linea di Nietzsche, con la volontà di potenza , con la trasvalutazione di tutti i valori. L’eterno ritorno dell’uguale (“Un’altra volta, ricominciamo” ) e il rifiuto di intendere la contingenza corporea come luogo di una beatitudine ricevuta al di là di se stessi. Su tale concetto aleggia lo Spirito assoluto di Hegel… Nulla di più contrario alla teologia della creazione nell’alleanza, alla cristologia della redenzione, al realismo eucaristico, alla forma ecclesiologica di ogni vocazione. In effetti, la comunità ecclesiale deve percepire la reciprocità delle relazioni uomo-donna per adempiere la responsabilità che ha nel mondo di oggi.
L'orizzonte resta "l'unità dei due" di cui Giovanni Paolo II ha fatto un leitmotiv di Mulieris dignitatem. Che fare, tuttavia, se ognuna delle vocazioni ecclesiali cerca di appropriarsi di ciò che fa la specificità degli altri o, al contrario, cede agli altri la propria elezione? Promuovere l'unione nella distinzione dell’uomo e della donna vuol dire per la Chiesa, rendersi felice della propria costituzione, al contempo gerarchica e carismatica, e per la vita consacrata, rimanere saldi in una vocazione che esprime in modo peculiare, (peculiari modo, diceva LG 44 cf. 45) la realtà battesimale.
Vita consacrata
e vocazione battesimale
La "vita consacrata tramite la professione dei consigli evangelici" corrisponde dunque a un approfondimento “unico e fecondo" della consacrazione battesimale (VC 30). Non basta tuttavia intenderla come “consacrazione più intima” di quella del battesimo (Lumen gentium, 44) per ribattere alle obiezioni di Lutero sui voti monastici, che perdurano tutt'oggi nei nostri ambienti ecclesiali. Occorre riflettere maggiormente sul rapporto tra la vita consacrata e gli altri sacramenti, innanzitutto quelli dell'iniziazione cristiana; secondo i vecchi riti, essa è anche una nuova unzione e una comunione più profonda. La vita consacrata ha però un legame con ognuno degli altri sacramenti del settenario, come segno della fecondità del matrimonio e dell’ordine, riconciliazione offerta, terapia divina del corpo e dell’anima.
La vita consacrata, frutto dei sacramenti, è da intendere come un sacramentale, ossia riconducibile all'interno della Chiesa, non all'atto salvatore di Cristo ma alla risposta d’amore della Sposa del Signore. Questa situazione può spiegare perché la Chiesa è in grado di dispensare dai voti mentre non può nulla su un sacramento validamente conferito.
Ora, la vita consacrata è riconducibile innanzitutto al Vangelo, alle beatitudini e ai consigli. Non ha il monopolio della pratica dei consigli evangelici (poiché tutti i cristiani sono tenuti a rispettare i comandamenti, e devono tutti essere intesi come molteplici consigli del Signore, cf. Lumen Gentium, capitolo V), ma trova la sua specificità nella professione liturgica e quotidiana di tali consigli, e in ogni caso, quello di castità. Questo punto distingue nel modo più opportuno lo stato matrimoniale dallo stato di vita consacrata. A tale proposito bisogna intendere la vita consacrata – la tradizione (in particolare con Antonio e Francesco) lo indica più chiaramente degli esegeti – come un'interpretazione viva e una lettura veramente spirituale delle parole del Signore nel Vangelo, trasmesse nel consiglio di Paolo (1 Cor 7), nella pratica degli Atti degli apostoli (le prime vergini cristiane) e nell'insegnamento dei Padri apostolici.
In modo ancora più preciso la vita consacrata funge da memoria del futuro (la resurrezione della carne, cf. Ap 14,4) e, al contempo, della forma di vita umile, casta e offerta che Cristo scelse per sé e che la Vergine Madre sua abbracciò (LG 46). La sua preminenza sullo stato matrimoniale – considerata fin dal Concilio di Trento, totalmente accettata dal Vaticano Il (nelle locuzioni "di più", "da più vicino", "più intimamente"...) e rielaborata dalla Vita Consecrata in forma non di superiorità relativa, ma di "obiettiva eccellenza" (VC 18, 32, 105), - deriva dalla vicinanza con l’origine e con la fine. La vita consacrata, in effetti, non nasce con la creazione (come il matrimonio) ma con la redenzione, e non aspetta altro avvento se non quello che si opera oggi, rallegrandosi della vittoria già acquisita al prezzo del sangue dell'Agnello. Questo radicamento nella memoria eterna che ha Dio della nostra storia contingente, costituisce e misura il suo essere profetico, che torna a rivelare nella carne umana la vicinanza definitiva di Dio.
La vita consacrata, approfondimento del battesimo e frutto dei sacramenti, professione dei consigli evangelici in memoria del Signore che viene, mostra nella Chiesa la bellezza di una chiamata e di una risposta in cui brilla per sempre la gioia di Dio. Il carattere sponsale del battesimo, la lettura della Scrittura nella tradizione, l'umile manifestazione dell'incarnazione divina bastano a descrivere una vocazione attraversata dalla potenza dello Spirito. Carismatica, la vita consacrata lo è per sua natura. In essa possono avvenire i ministeri, ma come sovrappiù.
La professione dei consigli
o la lotta spirituale di una "esistenza trasfigurata"
Se ci si vuole attenere alla vena antropologica, è necessario riprendere nuovamente l'insegnamento della Vita consecrata. C'è innanzitutto l'icona della Trasfigurazione, proposta come luogo scritturale fondamentale. È un luogo teologico simbolico (una specie di storia nella storia, come lo è il racconto delle tentazioni che struttura il vangelo di Luca), adatto a illuminare la natura stessa di una vocazione in cui l'esperienza della gioia è più profonda di quella della prova. Nella vita consacrata vi è dunque all'origine un'esperienza dello splendore divino che permette, in seguito e in sovrappiù, di attraversare la prova dell'agonia e del sentirsi abbandonato da Dio nella morte: può seguire Cristo in queste traversate solo la persona che ha già riconosciuto l'invincibilità dell'amore più vulnerabile.
L'impegno dei consacrati a seguire Cristo casto, povero e obbediente si definisce certo come una lotta spirituale, fin da quando la tradizione della Chiesa ha visto nelle tre tentazioni di Gesù nel deserto, o le tre concupiscenze di cui parla la prima Lettera di san Giovanni (1 Gv 2,16), la prova in cui tutta l'esistenza umana (dunque, tutti i punti cardinali dell'antropologia: il rapporto con il mondo, con l'altro, con se stessi, con Dio) si trova convertita dalla potenza dell'Amore. Così, nel fare voto di castità, di povertà e di obbedienza, i religiosi si impegnano, dice la Lumen gentium, a “professare i consigli evangelici” come stato di vita significante per tutti gli uomini (LG 39,42,43).
Forse i consacrati sono troppo abituati a considerare la testimonianza come un incarico, la missione come un progetto, la comunione come una questione privata e la professione dei consigli come un impegno del tutto personale. I consigli hanno invece, come gli altri aspetti della vita consacrata (in qualsiasi forma) innanzitutto una dimensione ecclesiale, poiché la Chiesa continua in questo modo a indicare al mondo i cammini della propria trasfigurazione; trasfigurazione che oggi si appoggia soprattutto sulla professione di fede.
Nei primi numeri della Vita consecrata, ossia nella parte intitolata "A lode della Trinità" (VC 20-22), l'esortazione dà una visione dei consigli evangelici considerati doni della Santa Trinità; ossia la Trinità conferisce loro il senso profondo. Il testo offre una dimostrazione per la castità, immagine dell'amore infinito che unisce tre Persone divine, per la povertà, espressione del dono di sé che si fanno mutualmente, e per l'obbedienza, riflesso nella storia della loro corrispondenza nell'amore.
Alcuni trovano insolito questo tipo di richiamo, eppure è sviluppato ampiamente nella Terza Parte (Servitium caritatis), che spiega l'aspetto non solo personale ma anche comunitario di ogni risposta che danno i tre consigli alle "provocazioni" della nostra cultura: l'amore umano dei consacrati trova sostegno nella contemplazione dell'amore trinitario (VC 88), la povertà evangelica rende testimonianza a Dio che è la vera ricchezza del cuore umano (VC 89-90), l'esercizio dell'obbedienza e quello dell'autorità danno un segno luminoso di quell'unica paternità che viene da Dio, della fraternità nata dallo Spirito, della libertà interiore che garantisce di essere in missione alla sequela di Cristo (VC 91-92).
Nessuno dei consigli è dunque "appropriato" a una persona divina,ma la vita divina stessa è proposta come misura dei comportamenti fondamentali (rappresentati dai tre consigli) dell'esistenza umana. Mi sembra che vi sia qui un'ispirazione davvero nuova. È forse per noi familiare questo concepire la castità come amore infinito, la povertà partendo dal dono che è Dio per se stesso, l'obbedienza come una mutua corrispondenza? Superiamo qui il solito "cristomonismo" che caratterizza le descrizioni che facciamo dei tre voti, e ciò permette indubbiamente di collocare la vita consacrata non solo come vita nello Spirito, ma anche come illustrazione esemplare della vita cristiana.
A tale proposito il numero 17 della Vita consecrata offre un piccolo trattato sull'azione dello Spirito Santo, il quale fa percepire la chiamata alla vita consacrata, accompagna la sua crescita, porta a maturazione la risposta, ne sostiene la fedele esecuzione, ecc., trattato di cui si trova la replica nei bellissimi numeri proposti nella Seconda Parte sulla formazione (65-71). Per l'esortazione, il primo di tutti i formatori è il Padre (66); è lui che completa nella persona, nell'ora suprema, questo misterioso cammino nello Spirito che costituisce in fin dei conti la formazione (70). Le giovani comunità spesso in deficit in questo ambito capitale della formazione sono per fortuna richiamate alle sagge tradizioni che riguardano i processi di autorità e di obbedienza, e invitate a meglio capire come, nell'antropologia cristiana, il buon senso più elementare si accorda ai doni più spirituali.
Restiamo un istante sull'immagine finale dell'esortazione, che identifica la vita consacrata con il gesto di Maria di Betania (Gv 12,3). Gesù capisce questo "linguaggio" e risponde non solo ingiungendo a Giuda, "Lasciala fare!", ma anche riconoscendo la sovrabbondanza della sua gratuità. Così, contrariamente ad una dottrina semplicistica della vocazione (Dio chiama, io rispondo), una donna precede con il suo amore l"inutile effusione" verso la quale va Gesù, rispondendo anticipatamente al dono del Signore che lei stessa ha intuito. La discussione sterile (che ha riempito per anni le pagine di tante riviste) sul fatto di sapere se è Dio che consacra la persona o la persona che si consacra, trova qui la migliore conclusione.
Nel situare la professione dei consigli evangelici nella celebrazione eucaristica (Sacrosanctum concilium 80), il Concilio Vaticano II aveva indicato come la liturgia rappresenta, per la teologia della vita consacrata e per il suo diritto, la fonte estrema. Nell'atto pasquale di Cristo, che si estende dai principio alla fine dei nostri tempi umani, si trovano inseriti tutti gli impegni con i quali passiamo dalla morte alla vita, dal battesimo al martirio, poi alle diverse figure della vita cristiana. Ora, tutte queste storie singolari si rapportano alle scelte di vita che la Vita consecrata riconosce come "paradigmatiche" della vocazione cristiana – la vita laica, il ministero ordinato e la vita consacrata (VC 31): "Tutte le vocazioni particolari, sotto l'uno o l'altro aspetto, si richiamano o si riconducono ad esse, assunte separatamente o congiuntamente, secondo la ricchezza del dono di Dio". La peculiarità della vita consacrata è però quella di testimoniare che tale gratuità è sovrabbondante, secondo i termini dell'esortazione, che precisa alla fine: "Quello che agli occhi degli uomini può apparire come uno spreco, per la persona avvinta nel segreto del cuore dalla bellezza e dalla bontà del Signore è un'ovvia risposta d'amore" (VC 104).
È stato sufficientemente rilevato che il Concilio Vaticano II riconduce lo stato religioso quanto lo stato coniugale al testo di Efesini 5, nel quale è descritto il “grande mistero” dell'unione di Cristo con la Chiesa? La Lumen gentium, che opera questa congiunzione, va oltre poiché le vedove e i celibi (innuptis, "non sposati", hapax conciliare, in LG 41) sono anch'essi rapportati "in altro modo" (simile exemplum alio modo) a questo Amore offerto. Inoltre la costituzione dogmatica pone i diaconi al servizio dello stesso mistero (LG 41), mentre il decreto sul ministero e la vita dei presbiteri Presbyterorum ordinis vede nel celibato sacerdotale un richiamo allo sposalizio "arcano" (arcanum) voluto da Dio, e che manifesterà pienamente in futuro, per il quale la Chiesa ha come unico Sposo Cristo (PO 16). I verbi utilizzati hanno una grande importanza: il matrimonio "significa" questo mistero e lo "partecipa" (LG 11), i voti religiosi "rappresentano" Cristo unito alla Chiesa (LG 44), i sacerdoti "evocando (con il loro celibato) così l'arcano sposalizio istituito da Dio, e che si manifesterà pienamente nel futuro" (PO 16).
Conclusione: la professione dei tre consigli,
una "terapia spirituale per l'umanità"
Quando la Vita consecrata (87) intende “il profondo significato antropologico” dei tre consigli evangelici non come un impoverimento di valori autenticamente umani, ma come la loro trasfigurazione, indica che “i consigli evangelici non vanno considerati come una negazione dei valori inerenti alla sessualità, al legittimo desiderio di disporre di beni materiali e di decidere autonomamente di sé”, poiché “queste inclinazioni, in quanto fondate nella natura, sono in se stesse buone” – anche se possono essere tradotte in modo trasgressivo. Così “la professione di castità, povertà e obbedienza diventa monito a non sottovalutare le ferite prodotte dal peccato originale e, pur affermando il valore dei beni creati, li relativizza additando Dio come il bene assoluto. Così coloro che seguono i consigli evangelici, mentre cercano la santità per se stessi, propongono, per così dire, una "terapia spirituale" per l'umanità, poiché rifiutano l'idolatria del creato e rendono in qualche modo visibile il Dio vivente. La vita consacrata, specie nei tempi difficili, è una benedizione per la vita umana e per la stessa vita ecclesiale”.
Relativizzare il valore dei beni creati vuol dire rapportarli al Bene assoluto. Seguire la loro chiamata specifica alla santità abilita i consacrati a proporre una "terapia spirituale" all'uomo odierno, ossia a espletare, nella misura della loro “esistenza trasfigurata”, un processo che rispetti, dia sollievo, guarisca l'umanità dell'uomo: allontanandosi loro stessi dagli idoli, possono rendere visibile in questo mondo le premure del Dio vivente. Ecco una benedizione per la vita degli uomini e per la vita della Chiesa, che potrebbe essere particolarmente auspicata in questo tempi difficili.
Noëlle Hausman, SCM