Cozza Rino
Riformare non è imbiancare
2018/12, p. 20
Negli attuali documenti conclusivi dei Capitoli traspare la consapevolezza che l’epoca che ci è familiare stia vivendo la sua fase terminale per lasciare il posto a una nuova figura di vita consacrata?

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Testimoni
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Analisi di 14 resoconti capitolari
RIFORMARE
NON È IMBIANCARE…
Negli attuali documenti conclusivi dei Capitoli traspare la consapevolezza che l’epoca che ci è familiare stia vivendo la sua fase terminale per lasciare il posto a una nuova figura di vita consacrata?
«Riformare…è dare altra forma». Con queste parole papa Francesco viene a confermare che «stiamo vivendo una fase di rielaborazione di tutto ciò che costituisce il patrimonio e l’identità della vita consacrata».
Lo strumento giuridico privilegiato che si credeva fosse in grado di interpretare e orientare alle nuove stagioni sociali ed ecclesiali, si pensava fosse il Capitolo, ma la storia degli ultimi cinquant’anni ci dice che questo «tavolo alto» non è stato capace di nuove figurazioni dell’identità religiosa a misura del bisogno della nuova società.
Per troppi anni, al fine di dare risposte nuove alle diverse sfide del tempo, si è continuato con premesse e linee di traguardo valide per tempi di acquisizioni sedimentate, piuttosto che con snodi di accelerazione. Ma, diceva A.Einstein: «quando continuando con le premesse conosciute non si ottiene il risultato atteso, significa che le premesse sono sbagliate». Non stupisce allora se dopo cinquant’anni di Capitoli ricchi di altisonanti proclamazioni circa la necessità di rinnovare la vita religiosa, questa anziché essere passata all’altra riva, si trova sempre più arenata nei suoi stessi fondali.
Da qui la domanda: negli attuali documenti conclusivi dei Capitoli traspare la consapevolezza che l’epoca che ci è familiare, stia vivendo la sua fase terminale per lasciare il posto a una nuova figura di vita consacrata?
Alla risposta hanno contribuito un gruppo di esperti, i quali, dopo aver esaminato quattordici resoconti di altrettanti recenti Capitoli, si sono pronunciati avendo come criterio di giudizio gli orientamenti della Congregazione dei religiosi (CIVCSVA) espressi in «Per vino nuovo otri nuovi».
Le risposte
in sintesi
Ecco in estrema sintesi quanto rilevato:
▪È emerso innanzitutto che nei Capitoli analizzati solo in parte ci si è chiesti «se quello che oggi gustiamo e offriamo da bere è veramente vino nuovo corposo e sano». Conseguentemente i capitolari non si sono troppo spesi nella «rielaborazione di ciò che costituisce il patrimonio e l’identità della vita consacrata», vale a dire della costellazione di modelli, di valori e doveri, di linguaggi, di spiritualità e identità ecclesiale».
▪Nelle relazioni non mancano espressioni che dicono la consapevolezza che «Il vino nuovo esige la capacità di andare oltre i modelli ereditati», arrivando anche ad affermare conseguentemente che «l’eredità del passato non va conservata, ma riscoperta e rigiocata con coraggio, per ospitare la ricchezza plurale della vita che viene; però non si è dato spazio all’individuare i tessuti culturali e le strutture storiche che ancora ingombrano il campo rendendo difficile il nuovo. Da qui, ad esempio, la pochissima attenzione, e la conseguente tiepida promozione di nuove forme di vita individuale e collettiva, anche perché forse manca la consapevolezza che le organizzazioni che la persona oggi liberamente sceglie per avere più vita, devono passare da forme gerarchico-piramidali a strutture «a rete» con modelli organizzativi che non siano in contraddizione con le istanze di fraternità da cui la vita religiosa è nata.
▪In quasi tutti i resoconti c’è abbondanza di proclamazioni ma più ottative che programmatorie; dunque indicazioni non in grado di supportare il nuovo, perché prive di vera progettualità e di periodiche verifiche dell’eventuale «cammino» proposto. Inoltre talvolta sembra trovarsi di fronte a qualcosa che sa di trattazione accademica.
▪Ci si sarebbe aspettata da parte dei capitolari una riflessione sul ministero dell’autorità circa il quale il documento pontificio si è speso fino a dire coraggiosamente che «il servizio dell’autorità non rimane estraneo alla crisi in atto. Il documento continua: affinché il ministero dell’autorità possa essere a servizio di uno stile realmente comunionale di vita fraterna deve essere espresso anche con una terminologia adeguata: «non lo sono – è detto – i termini «superiori e sudditi» sia perché non rimandano al dire di Gesù: «il primo sia l’ultimo, il servo di tutti» (Mc 9,35), sia perché oggi non è più possibile concepire la società divisa in classi. Nonostante tutto questo, nei documenti capitolari, i termini «superiore» e «superiora» (l’uso dei quali fa la differenza tra le istituzioni e i mondi vitali) sono abbondantemente presenti tanto da far dire a un esaminatore: o il documento «vino nuovo per otri nuovi» da molti non è stato ancora letto, o l’abitudinarietà, cioè la forza del «si è sempre detto o fatto così», per questa generazione è ancora prassi corrente, nella speranza però che non lo sia anche nelle varie prospettive di vita religiosa! A scusa, i redattori dei documenti capitolari potrebbero addurre il fatto che anche in “Vino nuovo per otri nuovi” dopo l’indicazione di inammissibilità dei termini «superiore» e «superiora», questi stessi termini hanno continuato, purtroppo, a essere riportati in varie parti dello stesso documento.
▪Ciò che invece ha provvidenzialmente richiamato particolare interesse (nove su quattordici resoconti) è stato il tema della Famiglia carismatica intesa come quella che comprende cristiani laici che si sentono chiamati, proprio nella loro condizione laicale, a partecipare della stessa realtà carismatica dei religiosi, per cui pensare che l’unica e piena realizzazione del carisma sia quella espressa dalla vita religiosa, vuol dire impoverirlo e negarlo nella sua vera destinazione. È questa una opportunità che potrebbe aprire al futuro.
▪In conclusione: ciò che è balzato maggiormente agli occhi di coloro che hanno esaminato i documenti capitolari è stato il constatare e confermare quanto sia vero ciò che è detto nel documento «Per vino nuovo in otri nuovi», e cioè che «la vita religiosa con i suoi stili standardizzati – troppo spesso fuori contesto culturale (com’è in ogni sistema stabilizzato) tende a resistere al cambiamento e si adopera per mantenere la sua posizione, a volte occultando le incongruenze». Il motivo starebbe nell’essere «abituati al gusto del vino vecchio e rassicurati da modalità già sperimentate, (per cui) non si è realmente disponibili ad alcun cambiamento se non sostanzialmente irrilevante». Da qui, l’attuale spendersi nel «puntellare» l’esistente anche se carismaticamente improduttivo.
▪Dicono infine gli estensori della valutazione: ciò che dovrebbe maggiormente preoccupare, è il constatare che dall’insieme traspare una vita religiosa più professionalizzata che testimonianza del Dio della vita.
Guardare non di spalle
ma in faccia
Guardare di spalle è di chi, assorbito «dall’arginare i problemi piuttosto che immaginare dei percorsi», tenta in tutti i modi di far sembrare vivo ciò che è morto; mentre guardare «in faccia» è di chi è alla ricerca di un pro-getto (gettato in avanti) per farne un «viaggio», e non una nostalgia. Allora per questo fine servono «nuovi tavoli di concertazione» attorno a cui si siedano persone dotate di «fantasia e ingegno in azione» e non solo di «conoscenze conosciute», che del «pensato» vogliano diventarne «facitori», rischiando i propri passi su strade inedite, disponibili a progressivi riposizionamenti al fine di trovarsi bene nel continuo viaggio dell’apprendimento, perché, oggi, ogni progetto ha significatività se accetta da subito di essere perennemente evolutivo. Questi «tavoli» richiedono in chi vi partecipa, creatività, mani in pasta ed occhi all’orizzonte, per cogliere con tempestività l’utilità di un intervento nel “continuo” del momento evolutivo. Non è da sottovalutare il fatto che la strada si apre e un’idea arriva a compimento solo se c’è una emozione positiva che la sostiene, mentre ciò che viene pensato e poi proposto da altri e dall’alto non diventerà mai efficace. G.Bini, da generale OFM disse ai capitolari: «l’Ordine, lungo la storia, si è sempre rinnovato grazie a gruppi di frati appassionati e capaci di sognare». C’è in questo dire l’ammissione che non si può salvare la vita religiosa per vie unicamente istituzionali. Le istituzioni – scrivono i teologi F. Kaufman e J.B. Metz – «sono certamente importanti: esse hanno una forza di inerzia che aiuta ad andare oltre il tempo, ma non portano avanti nulla».
Circa cinque decenni fa, erano gli anni in cui uno dei maggiori studiosi della società contemporanea Zygmunt Bauman, andava coscientizzando sul fatto che «le impalcature sociali, quelle fissate su organizzazioni, classi, ruoli, in cui inscrivevamo i nostri progetti di vita e le nostre speranze per il futuro, stavano diventando improvvisamente fragili», e che «le dinamiche istituzionali sempre più succubi di rituali, gerarchie e organigrammi, facevano perdere di vista la centralità della persona, con la conseguenza di farci ritrovare ad essere all’interno di agenzie sociali sempre più in affanno, chiuse ideologicamente in se stesse».
Servono forme
per “rifare i patti”
In riferimento al Capitolo, nel dicembre del 2000, la commissione teologica dei padri generali (USG), aveva scritto: «abbiamo in qualche occasione spezzato la logica della rappresentatività giuridica?».La domanda portava a dire che questa non è più sufficiente per la riattualizzazione del carisma perché non può essere escluso nessuno di coloro che in ultima analisi sono i soli a dover decidere su qualcosa che ha a che fare con la libertà di una scelta personale. In caso contrario al singolo non rimarrebbe altro che l’adattarsi passivo a motivo del mancato investimento.
Oggi la persona non è più solo ricettiva, per cui nessun valore entra nella sua vita se non ha partecipato a costruirlo, per il fatto che nessuno, oggi, si sente rappresentato totalmente da un altro o da una élite. A dare forma a ciò che impegna la propria vita devono poter partecipare, in modi che iniziano ora a essere sperimentati, tutti coloro che in essa si riconoscono e desiderano esserci. Si tratta di pensare a forme di corresponsabilità attraverso cui ad ognuno, in un particolare territorio, sia data la possibilità di rifare i patti. In situazione in cui «altri» pensano, deliberano (credendo che la delibera sia promozione), non rimane che prendere i propri spazi: è questo un fenomeno in incremento, che si coglie dal crescente numero di religiosi/e che non prendono più posizione contro l’istituzione ma stanno imparando a vivere senza di essa. Le “lettere di fraternità” o scritti dell’Istituto non letti; la non risposta ai questionari, il rifiuto di incontri, ecc. hanno una eloquenza propria. Quando queste forme comunicative non interessano più è perché in esse si è allentata la forza emotiva e come conseguenza non hanno più la capacità di innescare comportamenti coerenti con le istruzioni scritte o verbali dell’Istituto, specie se diluite nell’eccesso di parole (documenti) che dopo poche settimane o giorni, come ogni altro bene di consumo, svaniscono nell’apposito dimenticatoio nel quale il sistema della comunicazione confina tutto ciò che è già stato comunicato. Il filosofo Ch. Baudelaire diceva: «ogni uomo porta in sé una dose di oppio naturale, che instancabilmente secerne e rinnova».
Non è più tempo
di scorciatoie
Anche se ancora molto frammentari, si intravedono alcuni segni di rinascita. È detto in «Per vino nuovo otri nuovi»: «siamo già alla soglia di nuove sintesi che nasceranno con gemiti interiori e inesprimibili (cf Rm 8,23,26) e con paziente esercizio di fedeltà creativa». Questo fermento si avverte in alcuni Istituti che hanno avuto il coraggio di abbandonare, tra l’altro, la superata idea che il «centro» sia il modello che riunisce tutti gli aspetti culturali, progettuali e carismatici dell’Istituto in qualsiasi parte del mondo. Sono partiti dal credere che nella società della comunicazione istantanea appare sempre più evidente che a essere creatore dei mondi di significato è ciascun territorio nella propria area culturale, per cui varie funzioni che erano attribuite al centro sono invece proprie delle “periferie”, o, per meglio dire, i centri sono tanti quanti sono i territori. Si tratta di non soffocare tante inquietudini presenti nella vita religiosa che possono essere creatrici.
È da questo rinnovamento, che può nascere nelle nuove generazioni, il desiderio di una consacrazione che a differenza dei precedenti schemi, non si apparti dal mondo, ma che piuttosto faccia delle realtà secolari il proprio ambito di vita e di azione per potersi convertire in lievito.
Rino Cozza csj