Scrutare fuori e oltre
2018/1, p. 32
I religiosi/e per uscire dal posto marginale che oggi di
fatto detengono nella coscienza collettiva, hanno
soprattutto bisogno di trovare nuove tracce di senso che
rendano evidente la loro funzione di “segno” all’interno
della storia corrente, alla quale si è fedeli se di essa si
accetta il continuo divenire.
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Passare dalle risposte alle domande
SCRUTARE
FUORI E OLTRE
I religiosi/e per uscire dal posto marginale che oggi di fatto detengono nella coscienza collettiva, hanno soprattutto bisogno di trovare nuove tracce di senso che rendano evidente la loro funzione di “segno” all’interno della storia corrente, alla quale si è fedeli se di essa si accetta il continuo divenire.
Le considerazioni qui espresse partono da un dato di realtà: la vita religiosa nata per rispondere a delle sfide, ora si trova a dover sfidare se stessa, finora con esiti non confortanti.
Ritorno con altri stimoli su questo tema perché mi sembra di veder crescere in vari Istituti carismatici la voglia e conseguente impegno nell’abbracciare coraggiosamente nuove migrazioni, passando dalla capacità di conservazione alla capacità di trasformazione
Perché non incuriosiamo più?
Un motivo è da ricercarsi nel fatto che la vita religiosa essendo stata proposta e vissuta per tanti secoli come “separazione”, si è portata a essere asimmetrica rispetto alla vita della gente, con la conseguenza che oggi non è sentita contemporanea e dunque non in grado di capire i nuovi veri bisogni.
Un altro motivo di difficoltà sta nell’essere eredi di quel tempo in cui il religioso era formato a «fare bene» quanto l’Istituto da sempre proponeva. Il configurarsi e l'uniformarsi era la norma perché la vita religiosa aveva unicamente la funzione di cambiare le persone e non quella che le persone potessero cambiare la vita religiosa. È andato in tal modo a crearsi un tipo di pensiero che non l’ha aiutata ad imparare qualcosa di nuovo essendosi abituata a pensare il mondo su codici immutabili che hanno contribuito a costruirne l’identità su norme e consuetudini quasi sacralizzate.
Si è arrivati così a un tempo in cui i punti di contatto tra la cultura attuale e le forme storiche della vita religiosa sono pochi. Non stupisce allora se oggi la vita religiosa «appare ai più come qualcosa di troppo vecchio, e questo non solo per l’età media dei religiosi/e, ma più radicalmente per una perdita di attrattività, di ospitalità e di amabilità», dovuta all’ essere vista sul versante della memoria, vale a dire impegnata ad «assicurare un passato che sempre le ritorna quasi con malinconia». Ma l’identità cristiana è migrazione, nomadismo, diversamente ci si rende prigionieri di un presente angusto per la difficoltà a liberarsi da quelle storicizzazioni che condizionano la fedeltà all’oggi. Dio è fedele alla storia e ne accetta il divenire.
Che il dinamismo evangelico porti a essere nuovi è intravisto, ad esempio, in ciò che vanno esprimendo buona parte delle attuali forme discepolari, ricche di acquisizioni dell’oggi, che con le loro scelte vengono a dire che «senza vita nuova e autentico spirito evangelico qualsiasi struttura si corrompe in poco tempo» con la conseguenza che di essa, negli anni, «non rimarrà traccia se non come impronte di sabbia nel deserto».
Infine non incuriosiamo più perché giudicati in ritardo storico, sia per deficit spirituale avendo spesso confuso spiritualità con religiosità, e sia per deficit antropologico; ritardo avvertito nell’ incapacità di tenere in unità ciò che in Gesù si salda e armonizza: l’umano autentico e il divino. Non si può più parlare di salvezza in termini cristiani senza avere davanti agli occhi la salvezza di tutto l’uomo, non solo per la vita eterna ma anche per il ben-essere quaggiù in coerenza con la sua vocazione umana come immagine di Cristo. Allora, diversamente dal passato, è richiesta anche nella vita quotidiana delle persone, la posizione di preminenza del soggetto individuale rispetto alle tradizioni e le istituzioni vincolanti. Oggi è la stessa congregazione vaticana della vita religiosa (CIVCSVA) a dire che «l’autorità è chiamata a promuovere la dignità della persona», ad esempio con il «non relegare nessuna sorella in uno stato di «sudditanza», cosa – è precisato nello stesso documento – che si riscontra purtroppo con frequenza». Anche questo si iscrive «nell’impegno di dare al vangelo, la pienezza di credibilità attraverso parabole di vita vissuta, in cui le persone tornino a contare di più dei principi astratti, e la fede più che una dottrina sia una modalità di essere trasparentemente cristiani dentro la vita degli uomini».
Chiamata a mettere il suo agire sui sentieri di «senso»
I religiosi/e per uscire dal posto marginale che oggi di fatto detengono nella coscienza collettiva, hanno soprattutto bisogno di trovare nuove tracce di senso che rendano evidente la loro funzione di “segno”, consapevoli però che i processi di significazione sono solo all’interno della storia corrente, alla quale si è fedeli se di essa si accetta il continuo divenire. Questo concetto lo si trova anche nelle parole del Papa: «La vita carismatica della Chiesa, per non esaurirsi deve trovare costantemente nuove forme» capaci di ridisegnare continuamente il senso di ciò che va facendo, e nel contempo i suoi ambiti e i suoi scopi, che in ogni caso oggi non sono più quelli di gestire in proprio la carità o essere l’anima sociale dei territori. Proprio ambito e scopo sono invece l’indicazione di un esserci diverso, fatto di vissuti relazionali intensi, pensati in “termini di senso”, piuttosto che di quell’”efficienza” che ha condotto la vita religiosa ad adorare i visibilismi di tante strutture, anche se non più avvertite come strumenti al servizio del messaggio. È così che costretta a vivere non di orizzonti ma di emergenze, si è portata a «cercare scorciatoie per sfuggire alle sfide che oggi bussano alle proprie porte». Ma di questo passo, il cielo sopra il nostro giardino diventerà sempre più piccolo.
Come uscirne? Non basta la presunzione di avere un “sapere” da cui trarre le risposte: è solo connettendosi con le domande della storia che si mette il nostro agire sui sentieri di senso. Veniamo dal tempo in cui si pensava fossero le risposte, a meritare un inchino, ora invece si incomincia a pensare diversamente con il portarsi a credere che le vere riforme in grado di dire Dio con la vita, all’uomo moderno, nascono dalle domande, specialmente di coloro che non si sono tenuti al riparo del “fiume della vita”: cioè da coloro che dopo aver colto l’usura di ciò che vi è nella Chiesa, e nella vita religiosa, hanno la capacità di marcarla con le attuali coordinate; e da coloro che hanno resistito alla tentazione di rifugiarsi in un mondo un po’ autistico.
È solo connettendosi con le domande che ci si rende capaci di un impatto reale con i bisogni e la vita dei contemporanei. Diversamente «ci si consegna a un inevitabile destino di estraneità e diversità nei confronti del cammino culturale circostante con la conseguenza che, per il futuro, il carisma di consacrazione risulterà sempre più insignificante e irrilevante davanti al mondo».
Dal «vigilare sulle ceneri al custodirne il fuoco».
Quando non si esplora più l’orizzonte ma ci si accontenta del presente, avviene come in un organismo che smette di essere vigile, attento: si impigrisce, non reagisce.
Papa Francesco indica un modo di venirne fuori: «serve una Chiesa capace di nuova immaginazione e perciò capace di ripensare se stessa all’interno del nuovo contesto culturale in cui si trova». Allo scopo le è richiesto di non essere orientata a se stessa, tendente a costruire una collettività nella collettività, ma impiantata nel mondo per poter essere trasparente annuncio di un nuovo tipo di società fraterna ed egualitaria. Il tutto attraverso «strutture fisiche, mentali, spirituali, affettive, religiose e organizzative semplici, non aziendali, accoglienti, poco pesanti e aperte». In particolare la vita religiosa deve ri-nascere a partire dalla frequentazione delle nuove periferie dove si trovano i nuovi bisogni, dimenticando le proprie organizzazioni per occuparsi delle ferite e dei dolori degli uomini.
Di ciò sono capaci coloro che scelgono di essere nomadi e cercatori, piuttosto che di coloro che dicono «io ho trovato»
L’arte dei cercatori è di saper guardare “oltre” e “fuori»”
Guardare “fuori” e “oltre” significa portare gli occhi non allo specchio di casa, ma alla propria “missione profetica”. Il termine profezia non rinvia a qualcosa di arcano, significa saper leggere le domande profonde ma inespresse del tempo, capacità di vedere ciò che altri non vedono, saper operare il collegamento tra le proposte del Vangelo e le situazioni storiche.
Profezia – diceva E.Balducci – è uno sguardo rivolto al presente per esprimerne l’inedito da cui emerga l’impronta delle scelte di Cristo. Vale a dire: è «l’arte di cercare i segni di Dio nelle realtà del mondo».
L’uomo non è soltanto ciò che ha già saputo realizzare, ma ciò che va sognando oggi: sogno che rimanda a desiderio, slancio, creatività di ciò che può immettere in qualcosa di più grande, in grado di forzare l’aurora del futuro. Senza sogno hanno il sopravvento gli adattamenti di acquiescenza e negligenza, con la conseguenza per i religiosi di trovarsi forestieri, quando non addirittura dei corpi estranei, all’interno di questa cultura che essi hanno contribuito a creare.
Se l’identità della vita religiosa è di essere profetica allora si dovrebbe poter pensare che i profeti siano di casa, se non fosse che Gesù ha detto “in verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria” (Lc 4,24). Non ci si deve allora meravigliare se purtroppo anche nella vita religiosa non sono pochi o poche coloro cui non rimane che «profetizzare ai margini dell’accampamento», specialmente quando «sui sentieri dei fondatori passeggiano i ragionieri».
Oggi però è la Chiesa che con il Papa esprime il suo bisogno di imparare da chi aveva giudicato ed emarginato e ricacciato nelle remote periferie del Mugello.
Il guardare “oltre” poi ci è oggi proposto nella metafora del “vino nuovo in otri nuovi”: immagine che viene a dirci il dover «andare oltre i modelli ereditati, per apprezzare le novità suscitate dallo Spirito, accoglierle con gratitudine e custodirle fino alla piena fermentazione oltre la provvisorietà».
Da qui il dovere di «chiederci se quello che gustiamo e offriamo da bere è veramente vino nuovo corposo e sano». La risposta non è scontata stante il fatto che «abituati al gusto del vino vecchio e rassicurati da modalità già sperimentate, non si è realmente disponibili ad alcun cambiamento se non sostanzialmente irrilevante, in quanto proposta discepolare.
Nel futuro
La vita religiosa è certamente un pezzo irrinunciabile di realtà evangelica da rendere però più trasparente, radicandola nelle “sfide”, forte unicamente del Vangelo ritrovato. Il rischio è di non saper cogliere il momento che stiamo vivendo come una stagione ricca di opportunità e di stimoli. Si tratta di viverla come tempo di potatura e alleggerimento di sistemi, strutture, diaconie, stili, relazioni e linguaggi affinché gli ideali e la dottrina possano prendere carne nella vita.
Scrisse una giovane suora: «Se non permetteremo alla novità dello Spirito e della storia di entrare e di modificare ciò che deve essere cambiato, trasformato e trasfigurato, lo stesso Spirito troverà la sua strada e agirà senza di noi, lasciandoci ai margini degli avvenimenti di questa umanità».
Ma «lasciarsi inquietare e destabilizzare dagli incitamenti vivificanti dello Spirito non è mai indolore».
Rino Cozza csj