Chiaro Mario
Esecuzioni capitali nel mondo
2017/7, p. 27
Nel 2016 ci sono state meno esecuzioni capitali nel mondo e il totale è diminuito rispetto al 2015. Sono però aumentate le sentenze di condanna a morte: i dati ci dicono che 3.117 persone sono state condannate a morte in 55 paesi nel 2016.

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Indebolimento dei diritti umani in molti paesi
ESECUZIONI CAPITALI
NEL MONDO
Nel 2016 ci sono state meno esecuzioni capitali nel mondo e il totale è diminuito rispetto al 2015. Sono però aumentate le sentenze di condanna a morte: i dati ci dicono che 3.117 persone sono state condannate a morte in 55 paesi nel 2016.
Il Rapporto sulla pena di morte riguarda l’uso giudiziario della condanna capitale nel 2016. Come negli anni precedenti, le informazioni sono state raccolte da diverse fonti e Amnesty International riporta esclusivamente esecuzioni, condanne a morte e aspetti legati all’uso della pena di morte (commutazioni o proscioglimenti). Va sottolineato il fatto che in molti paesi i governi non rendono pubbliche le informazioni: in Bielorussia, Cina e Vietnam i dati sull’uso della pena di morte sono classificati come segreto di stato. Durante il 2016 poi sono state poche o nulle le informazioni su alcuni paesi (Corea del Nord, Laos, Siria e Yemen) a causa di restrizioni governative e/o di conflitti armati. Amnesty International si oppone alla pena di morte in tutti i casi senza eccezioni riguardo la natura o le circostanze del reato, la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato, il metodo usato per eseguire la condanna a morte.
Meno esecuzioni
ma più condanne a morte
In sintesi il Rapporto evidenzia come nel 2016 ci siano state meno esecuzioni capitali nel mondo, ma più sentenze di condanne a morte. Il totale delle esecuzioni è dunque diminuito rispetto a quello elevato riscontrato nel 2015 e anche il numero di paesi che hanno eseguito condanne a morte è significativamente diminuito. Così si registra un calo del 37% del numero di esecuzioni: almeno 1.032 persone sono state messe a morte, 602 in meno del 2015, anno in cui c’è stato il più alto numero di esecuzioni dal 1989.
Se si guarda ai quattro paesi in cima alla lista ‒ Iran (col 55% di tutte le esecuzioni nel mondo) Arabia Saudita, Iraq e Pakistan ‒ si arriva all’87% di tutte le sentenze capitali registrate nel 2016. Il numero totale di esecuzioni in Iran è comunque diminuito del 42% rispetto allo scorso anno (da 977 a 567). L’Iraq invece ha più che triplicato il numero di esecuzioni, mentre l’Egitto e il Bangladesh lo hanno raddoppiato. Le esecuzioni sono diminuite in Pakistan, Indonesia, Somalia e Stati Uniti d’America. Si consideri che per la prima volta dal 2006 gli Usa non sono comparsi tra i primi cinque esecutori mondiali (in parte a causa dei ricorsi sul protocollo dell’iniezione letale e anche alla difficoltà di reperire i farmaci per esecuzioni con questo metodo).
La Bielorussia e le autorità dello Stato di Palestina hanno dal canto loro ripreso le esecuzioni dopo un anno di interruzione, mentre Botswana e Nigeria hanno eseguito le loro prime condanne a morte dal 2013. Nel 2016 Amnesty International non ha registrato esecuzioni in sei paesi ‒ Ciad, Emirati Arabi Uniti, Giordania, India, Oman e Yemen ‒, che invece ne avevano eseguite nel corso del 2015.
Nel complesso sono stati utilizzati i seguenti metodi di esecuzione: decapitazione (Arabia Saudita); fucilazione (Arabia Saudita, Bielorussia, Cina, Corea del Nord, Indonesia, Palestina (Stato di), Somalia, Taiwan); impiccagione (Afghanistan, Bangladesh, Botswana, Egitto, Giappone, Iran, Iraq, Malesia, Nigeria, Pakistan, Palestina, Singapore, Sudan, Sudan del Sud); iniezione letale (Cina, Stati Uniti d’America, Vietnam). Come negli anni precedenti, Amnesty International non ha ricevuto resoconti di esecuzioni giudiziarie avvenute tramite lapidazione.
Aumento delle condanne
in 55 paesi
Come già sottolineato, mentre diminuiscono le esecuzioni, sono aumentate le sentenze di condanne a morte: i dati ci dicono che 3.117 persone sono state condannate a morte in 55 paesi nel 2016. Il numero totale di sentenze capitali costituisce un aumento significativo rispetto a quello del 2015 (1.998) e supera il primato registrato nel 2014 (2.466). Si è registrato un numero più elevato di condanne a morte comminate in Bangladesh, Camerun, India, Indonesia, Iraq, Libano, Nigeria, Pakistan, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Thailandia e Zambia rispetto allo scorso anno. Per alcuni dei paesi elencati, per esempio la Thailandia, l’aumento è dovuto al fatto che le autorità hanno fornito informazioni dettagliate sull’uso della pena di morte proprio nel 2016. Alla fine del 2016, almeno 18.848 persone erano detenute nei bracci della morte in tutto il mondo.
Va anche ricordato che globalmente più di due terzi dei paesi al mondo ha abolito la pena di morte. Al 31 dicembre 2016 i paesi erano così suddivisi: 104 paesi hanno abolito la pena di morte per ogni reato; 7 paesi l’hanno abolita salvo che per reati eccezionali, quali quelli commessi in tempo di guerra o in circostanze eccezionali; 30 paesi sono abolizionisti di fatto poiché non vi si registrano esecuzioni da almeno dieci anni oppure hanno stabilito una prassi o hanno assunto un impegno a livello internazionale a non eseguire condanne a morte. In totale dunque 141 paesi hanno abolito la pena di morte nella legge o nella pratica. 57 paesi mantengono in vigore la pena capitale, ma il numero di quelli dove le condanne a morte sono eseguite è molto più basso.
Politiche
di demonizzazione
L’altro importante documento di Amnesty International, il Rapporto sui diritti umani, mette sotto accusa le “politiche della demonizzazione” che alimentano divisione e paura nel mondo. In particolare si punta il dito sugli esponenti politici che brandiscono la retorica disumanizzante del “noi contro loro“ creando un mondo sempre più diviso e pericoloso. Viene presentata una dettagliata analisi della situazione dei diritti umani in 159 paesi e si segnala che gli effetti della retorica del “noi contro loro” – dominante in Europa, negli Usa e in altre parti del mondo ‒ stanno favorendo un passo indietro nei confronti dei diritti umani e rendendo pericolosamente debole la risposta globale alle atrocità di massa. Nel 2016 i governi hanno chiuso gli occhi di fronte a crimini di guerra, favorito accordi che pregiudicano il diritto a chiedere asilo, approvato leggi che violano la libertà di espressione, incitato a uccidere persone per il solo fatto di essere accusate di usare droga, giustificato la tortura e la sorveglianza di massa ed esteso i poteri di polizia. Dall’analisi di Amnesty International risulta che in almeno 23 paesi sono stati commessi crimini di guerra, che 36 nazioni hanno respinto illegalmente migranti e rifugiati e 22 sono i paesi in cui sono stati uccisi difensori dei diritti umani. La mancanza della volontà politica necessaria per esercitare pressione sugli Stati che violano i diritti umani significa mettere a rischio i principi basilari dell’accertamento delle responsabilità per i crimini di massa e del diritto d’asilo. Assistiamo così a una panoramica delle crisi e della scarsa volontà politica di affrontarle: Siria, Yemen, Libia, Afghanistan, America centrale, Repubblica Centrafricana, Burundi, Iraq, Sud Sudan e Sudan.
I governi se la sono presa in particolare con i rifugiati e i migranti, visti come facili capri espiatori. In particolare il Rapporto denuncia 36 paesi che hanno violato il diritto internazionale rimandando illegalmente rifugiati in paesi dove i loro diritti umani erano in pericolo. Il presidente Trump ha firmato decreti per impedire ai rifugiati di ottenere il reinsediamento negli Usa e per vietare l’ingresso a persone in fuga da persecuzione e guerra, come nel caso della Siria. L’Australia ha inflitto gravi sofferenze ai rifugiati intrappolati a Nauru e sull’isola di Manus. L’Unione europea ha firmato un accordo pericoloso con la Turchia per rimandare indietro i rifugiati. Messico e Usa hanno continuato a espellere persone dall’America centrale, dove la violenza ha raggiunto livelli estremi. Cina, Egitto, Etiopia, India, Iran, Thailandia e Turchia hanno attuato massicce repressioni. Altri paesi hanno introdotto pesanti misure di sicurezza, come il prolungato stato d’emergenza in Francia e la legge sulla sorveglianza di massa nel Regno Unito.
All’inizio del 2017, molte delle principali potenze stanno perseguendo interessi nazionali più limitati a danno della cooperazione internazionale. Così la comunità internazionale ha reagito con debolezza di fronte alle innumerevoli atrocità del 2016: dall’orrore degli attentati ad Aleppo in Siria alle migliaia di persone uccise dalla polizia delle Filippine in nome della ‘guerra alla droga’, fino all’uso delle armi chimiche e all’incendio di centinaia di villaggi nel Darfur, in Sudan.
Panoramica sulla violazione
dei diritti umani
Tra le gravi violazioni dei diritti umani denunciate da Amnesty International in 159 paesi, ne ricordiamo alcune di particolare rilevanza.
In Egitto, per indebolire o diffamare o ridurre al silenzio la società civile, le autorità hanno fatto ricorso a divieti di viaggio, restrizioni finanziarie e congelamento di conti bancari. In Etiopia il governo ha usato le leggi anti-terrorismo e lo stato d’emergenza per reprimere giornalisti, difensori dei diritti umani, oppositori politici e soprattutto manifestanti.
In Arabia Saudita i difensori dei diritti umani e gli attivisti per i diritti delle minoranze sono stati imprigionati e condannati con generiche accuse di “offesa alle istituzioni dello stato”. Nello Yemen le forze della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita hanno bombardato scuole, mercati e moschee, uccidendo e ferendo migliaia di civili anche grazie ad armi fornite da Usa e Regno Unito. In Siria è proseguita l’impunità per i crimini di guerra e altre gravi violazioni del diritto internazionale, tra cui gli attacchi indiscriminati e quelli diretti contro i civili, insieme ai lunghi assedi delle popolazioni civili.
In Turchia, dopo il fallito colpo di stato, decine di migliaia di persone sono state arrestate, centinaia di organizzazioni non governative sono state sospese, sono proseguite pesanti operazioni militari nelle aree curde. In Russia il governo ha stretto la morsa intorno alle organizzazioni non governative, ricorrendo sempre di più alla propaganda dei “soggetti indesiderabili” e degli “agenti stranieri”. In Ungheria la retorica governativa ha imposto un modello divisivo di politiche identitarie e un’oscura visione della “Fortezza Europa”, che hanno portato a sistematiche misure repressive contro i diritti dei migranti e dei rifugiati.
Nelle Filippine un’ondata di esecuzioni extragiudiziali ha fatto seguito alla promessa del presidente Duterte di uccidere decine di migliaia di persone sospettate di essere coinvolte nel traffico di droga. In Myanmar decine di migliaia di “rohingya” (minoranza tuttora priva di cittadinanza) sono stati sfollati nel corso di “operazioni di sgombero”, nel contesto delle quali sono stati denunciati omicidi illegali, stupri e arresti arbitrati.
In India le autorità, con leggi repressive, hanno limitato la libertà d’espressione e ridotto al silenzio le voci critiche di studenti, docenti, giornalisti e difensori dei diritti umani. In Iran la repressione della libertà d’espressione, di associazione, di manifestazione pacifica e di fede religiosa è stata massiccia. Giornalisti, avvocati, blogger, studenti, attiviste per i diritti delle donne, registi e musicisti che avevano espresso critiche in modo pacifico sono stati condannati al termine di processi irregolari celebrati da tribunali rivoluzionari.
In Thailandia i poteri di emergenza, la legge sulla diffamazione e quella sulla sedizione sono stati usati per limitare la libertà d’espressione. In Cina è proseguita la repressione contro avvocati e attivisti, anche attraverso la detenzione senza contatti col mondo esterno, attraverso le confessioni trasmesse in televisione e le intimidazioni ai familiari.
In Honduras, oltre all’assassinio dell’ambientalista e attivista Berta Cáceres, sono stati uccisi altri sette attivisti per i diritti umani. In Venezuela sono stati ridotti al silenzio quei difensori dei diritti umani che hanno denunciato la crisi umanitaria causata dall’incapacità del governo di garantire i diritti economici e sociali della popolazione.
In Sudan vi sono prove che il governo abbia usato armi chimiche in Darfur. In altre regioni del paese, presunti oppositori sono stati arrestati e imprigionati. L’uso della forza nella dispersione delle proteste ha provocato numerose vittime. In Sud Sudan sono proseguiti i combattimenti, segnati da violazioni del diritto internazionale umanitario, che hanno avuto conseguenze devastanti sulla popolazione civile.
Ricordiamo infine che, in occasione della presentazione del Rapporto 2016-2017 sui diritti umani a Roma, Amnesty International Italia ha ribadito l’impegno a fare pressione sul governo italiano affinché la normalità dei rapporti diplomatici con l’Egitto sia ripristinata solo quando si sarà ottenuta tutta la verità sulla tortura e l’assassinio del giovane giornalista Giulio Regeni, un’adeguata riparazione e la punizione dei responsabili. Amnesty International Italia ha anche reso noto il testo di una lettera indirizzata al ministro della Giustizia a proposito della perdurante mancanza del reato di tortura nel codice penale italiano.
Mario Chiaro