Torcivia Mario
Attualità delle opere di misericordia
2017/3, p. 20
Iniziando proprio dalla terminologia, crediamo che la dicitura “opere di misericordia” non si riveli la più appropriata a definirle. Propendiamo infatti a sostituire il termine “misericordia” con “giustizia”. Quando parliamo di misericordia infatti risulta evidente a tutti la connotazione della gratuità di un gesto, di una parola, posti in atto per prendersi cura di chi ha bisogno di qualcosa. In questo senso, parlare di misericordia significa riferirsi innanzitutto al rapporto di Dio con l’uomo

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Attualità delle opere di misericordia
Nell’anno appena concluso dedicato alla misericordia, abbiamo sentito parlare spesso e sono stati pubblicati diversi libri sulle cosiddette opere di misericordia, corporale e spirituale.
In questo nostro contributo cercheremo di riflettere sulla loro attualità.
Iniziando proprio dalla terminologia, crediamo che la dicitura “opere di misericordia” non si riveli la più appropriata a definirle. Propendiamo infatti a sostituire il termine “misericordia” con “giustizia”.
Quando parliamo di misericordia infatti risulta evidente a tutti la connotazione della gratuità di un gesto, di una parola, posti in atto per prendersi cura di chi ha bisogno di qualcosa.
In questo senso, parlare di misericordia significa riferirsi innanzitutto al rapporto di Dio con l’uomo. Non sempre però questa gratuità assoluta che riferiamo in modo unico a Dio rispecchia gli atteggiamenti e i comportamenti umani. Questo avviene sovente quando chi compie un’azione di misericordia è in una posizione di maggiore possibilità socio-economico-culturale, rispetto a chi dovrà riceverla.
Tra simili, ribadiamo invece l’urgenza dapprima di vivere secondo giustizia e soltanto dopo, qualora ci si trovasse in situazioni di gap incolmabili, di aprirsi alla misericordia.
Col termine “opere di giustizia” pensiamo così che venga evidenziato il dovere di porre in atto, di realizzare delle azioni insite alla comune appartenenza al genere umano. Per questa ragione, ci si relaziona con l’altro perché doveroso in quanto, così facendo, si ristabilisce quella “giusta misura” che deve esistere tra coloro che formano qualunque società civile e religiosa.
Considerate in questo modo, le “opere di giustizia” diventano così una modalità per declinare, nel vissuto concreto, i rapporti di fondamentale giustizia che devono realizzarsi tra simili, pena lo scadimento nella violenza, nella guerra o, in una parola, nella disumanità.
Accanto alla vetustà del termine, anche la riproposizione della formulazione classica delle singole “opere di misericordia”, a nostro avviso, rischia di non parlare più nel nostro oggi.
L’elenco tradizionale infatti presenta alcuni valori e bisogni fondamentali nell’antichità (pensiamo alla concezione sacrale dell’ospitalità) oggi non più riconosciuti e/o avvertiti universalmente come tali.
Al contrario, determinate conquiste di civiltà avvenute in secoli recenti, rischiano di non ricevere la giusta attenzione, perché assenti nell’elenco classico delle “opere di misericordia”.
Pensiamo ai giganteschi passi in avanti compiuti nel mondo del lavoro, che hanno comportato, ad esempio, la giusta retribuzione salariale, l’assicurazione delle ferie maturate, la salvaguardia del posto di lavoro durante i giorni di malattia e la tutela della maternità.
Ci riferiamo anche, con un’elencazione non esaustiva, alla necessaria istruzione di tutti i popoli, specie quelli del terzo e del quarto mondo, al rispetto e alla difesa dei bambini e delle donne contro ogni abuso e violenza, al rifiuto di ogni forma di discriminazione per motivazione di genere sessuale, cultura, censo, ecc., al rispetto dell’ambiente e del mondo in cui viviamo, in quanto loro custodi e non dominatori, alla condivisione dell’acqua, oggi più che mai miccia esplosiva di futuri scenari bellici tra popoli, alla fondamentale libertà religiosa sempre più oggi minata da vari fondamentalismi, che nelle epoche passate non venivano certo considerati essenziali per il vivere civile dei popoli. Ragion per cui non troviamo oggi delle opere di misericordia loro corrispondenti.
Che dire inoltre del numero sette che, se rispondente pienamente al sentire medievale, oggi non parla più all’uomo contemporaneo.
Siamo certo consapevoli che ogni codificazione è di ausilio per l’uomo ma porta in sé, al contempo, il rischio di imbrigliare la creatività che ogni secolo deve potere vivere e manifestare nella sempre continua ricerca di nuove e attuali modalità di concretizzare la giustizia. Altrimenti c’è il rischio, a nostro avviso, di soffermarsi sulle singole “opere di giustizia” senza operare quel doveroso e inevitabile sforzo di “ridicibilità”, di “riscrittura”, che permetta loro di essere pienamente comprese.
Pensiamo che una formulazione, allorquando non si riveli più rispondente al sentire del presente, debba essere ridetta, altrimenti va abbandonata, pena la riproposizione meccanica soltanto delle parole o delle immagini, la cui forza iniziale è ormai venuta meno. E questo costituisce un compito necessario e impellente dell’intera comunità ecclesiale se si non vuole che il proprio linguaggio (teologico, liturgico, catechetico, spirituale, ecc.) risulti definitivamente incomprensibile all’uomo contemporaneo e, quindi, sterile e infecondo.
Siamo allora consapevoli che, più che declinare forme di “opere di giustizia” che parlino nel nostro oggi, risulti maggiormente impellente ribadire quello che sta alla loro base: la necessità degli uomini di prendersi reciprocamente cura - ribadiamo: per dovere di giustizia - perché vengano soddisfatti i necessari bisogni primari e secondari.
Saranno poi le singole culture, società e comunità ecclesiali a scandagliare con lucidità, acribia e intelligenza spirituale in cosa consistano soprattutto i secondi, in quanto mangiare, vestire e abitare una casa si rivelano necessari per qualunque membro del genere umano.
Le “opere di giustizia” possono diventare infine una piattaforma di lavoro comune tra credenti e non credenti, in quanto tutti accomunati dal servizio alle variegate esigenze dell’uomo - considerato dal cristiano, non soltanto un proprio simile ma figlio di Dio e fratello in Cristo - il cui risultato non può che essere una reciproca crescita nel cammino di umanizzazione, che tutti deve caratterizzarci.
don Mario Torcivia
Studio Teologico S. Paolo
Catania