Matté Marcello
Croyah. Vita sotto la croce
2017/3, p. 16
Croyah significa Luogo della croce, nel dialetto sassou parlato in Guinea (Conakry). Qui, nei pressi della città di Kindia, a circa tre ore di viaggio dalla capitale verso l’interno, si trova il Monastero della Santa Croce di Friguiagbé. È il primo monastero femminile della Guinea, fondato nel 1996 dalle Suore benedettine di Maumont. Oggi vi convivono sei sorelle, tre francesi e tre guineane. Le diversità di età, cultura, formazione e condizione canonica (2 novizie e quattro professe) costituiscono una sfida che si aggiunge alle richieste esigenti della vita monastica e rendono emblematico il progetto, spirituale ed esistenziale, del monastero di Croyah.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
Croyah. Vita sotto la croce
Soggetto e oggetto
Croyah significa Luogo della croce, nel dialetto sassou parlato in Guinea (Conakry). Qui, nei pressi della città di Kindia, a circa tre ore di viaggio dalla capitale verso l’interno, si trova il Monastero della Santa Croce di Friguiagbé. È il primo monastero femminile della Guinea, fondato nel 1996 dalle Suore benedettine di Maumont. Oggi vi convivono sei sorelle, tre francesi e tre guineane. Le diversità di età, cultura, formazione e condizione canonica (2 novizie e quattro professe) costituiscono una sfida che si aggiunge alle richieste esigenti della vita monastica e rendono emblematico il progetto, spirituale ed esistenziale, del monastero di Croyah.
Progetto
È quanto ha attirato l’attenzione dell’Alliance Inter-Monastères (AIM), che federa 450 comunità monastiche nel mondo.
L’AIM ha chiesto alla documentarista Cécile Juan di realizzare un filmato sulla vita del monastero di Croyah. Lo scopo, secondo il presidente dell’AIM p. Jean-Pierre Longeat, era di offrire «uno strumento di riflessione» ad uso interno.
Il progetto ha preso il via nell’inverno 2016. Cécile Juan e la sua troupe hanno condiviso per tre settimane la vita del monastero, osservandola con l’occhio distaccato della macchina da presa e con l’orecchio partecipe di chi vuole ascoltare il vissuto e lasciar parlare anche il silenzio. Nell’autunno dello stesso anno il docufilm è stato rilasciato all’AIM, che lo ha destinato alle comunità federate, escludendo – almeno per ora – ogni altro circuito di distribuzione.
Immagini e suoni
La porta della cappella fa da sipario che apre al mattino sul racconto della vita nel monastero e lo chiude a sera. Le immagini e i suoni narrano la preghiera e il lavoro, ossatura della Regola di san Benedetto. Il commento musicale interviene raramente e con tocco essenziale. La colonna sonora si sviluppa con i “rumori” dell’ambiente e delle azioni svolte, dal lavoro al canto, con le cicale a fare da contrappunto al silenzio operoso delle monache.
La trama portante del “diario” si intreccia con il sottile filo narrativo della costruzione di una croce in legno che verrà collocata all’ingresso del monastero. Il “luogo della croce” identifica un sito geografico ma ancor più il “luogo” dove si vive il discepolato nel lavoro e nella preghiera, nel silenzio e nel dialogo della vita fraterna.
La predilezione per la macchina ferma – né zoom né carrellate – traduce l’atteggiamento di rispetto nelle riprese, l’intenzione di raccontare senza invadere, senza alterare il vissuto che si dispiega all’occhio dell’osservatore che vuole conoscere prima ancora di informare. Nessun commento. Solo le voci delle protagoniste. Silenzio. Passaggi che evocano il film Il grande silenzio (2005), girato da Philip Gröning nella Grande Chartreuse (Francia).
Dialoghi
Voci che talvolta parlano allo spettatore e altre volte dialogano tra loro. I dialoghi sono il cuore parlato del documento filmato. Gli interventi tessono il doppio filo del messaggio. Nella prima parte danno voce all’esperienza della scelta di vita monastica. Nella seconda parte riproducono un momento di confronto veritiero sulle dinamiche della vita fraterna.
Novizie e professe prendono dapprima la parola per dire l’insufficienza della parola stessa ad esprimere l’esperienza spirituale che le ha condotte alla scelta. “Qualcosa che è accaduto”, semplicemente, impossibile da descrivere. L’irruzione del soprannaturale per il quale non c’è vocabolario, ma soltanto un Nome. «Una giovane che vede un’altra persona e qualcosa passa nel suo cuore ... E allora si va davvero verso questa persona». «È un sentimento forte, è così forte questo desiderio ... non riesco a esprimerlo». C’è il tempo per sentirsi colmare dal soffio divino e il tempo per sentirsi «come un palloncino che un poco alla volta si sgonfia. Ci sono tante cose dentro di noi e poco alla volta cambiano». Il desiderio di un rapporto personale con il Cristo tiene vivi. «Nel momento del deserto, del vuoto, sai che se potessi vedere il Cristo le cose andrebbero meglio» ... «Non posso vederlo come vedo questa penna, ma posso vederlo in ognuno» ... «Comprendi che dare la vita a Dio significa anzitutto donarla alle sorelle con cui vivi».
La parte centrale dei dialoghi agisce sulle tensioni che inevitabilmente si presentano nella vita comune. Sempre. A maggior ragione quando convivono età e culture diverse. Il confronto verbale (forse ricostruito a soggetto, forse in “presa diretta”) è schietto e diretto quando le novizie guineane esprimono la difficoltà a farsi comprendere e accettare. «Siamo cresciute senza l’abitudine ad esprimerci», confessano le giovani. Una difficoltà amplificata dalla percezione iniziale di essere invitate a un’obbedienza che significhi silenzio. «Quando raccolgo certe reazioni preferisco tacere», dichiara una novizia. La superiora contesta: «Tacere non è una risposta. Non aiuta a crescere come comunità». L’intesa viene raggiunta dall’impegno consensuale per la verità, ammettendo reciprocamente gli errori e le attribuzioni soggettive di significato, disposte a dichiarare entrambe passato il malinteso.
«Il film vuole aiutare le comunità a riflettere sulle difficoltà di vivere insieme», secondo p. Jean-Pierre Longeat, presidente dell’AIM. «La cosa più importante è mostrare che quando si costruisce un edificio, le pietre impiegano tempo ad assestarsi. E questo a volte può generare qualche scricchiolio».
La trasparenza della comunicazione è via maestra della fraternità. Il silenzio della vita monastica non è alibi, anzi moltiplica il peso delle parole e del non detto. Lo esplicita in immagini la giustapposizione dei momenti critici del dialogo all’intesa del lavoro svolto insieme. L’armonia cercata nel canto della preghiera è più sostanziale di una metafora della comunione ricercata nella preghiera corale.
Verso la fine, le sorelle esplorano insieme l’area circostante il monastero. La telecamera è eccezionalmente in movimento e le segue fino al fiume e ai progetti di pesca che suggerisce. Anche nella vita monastica c’è un’“uscita” ... ed è per la pesca.
Marcello Matté