Basso Aldo
Misericordia come consolazione
2017/2, p. 22
Il Giubileo straordinario della Misericordia ci ha lasciato in eredità un’indicazione più sicura e luminosa del cammino che la Chiesa deve seguire. «La misericordia – scrive papa Francesco – non può essere una parentesi nella vita della Chiesa, ma costituisce la sua stessa esistenza»

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Consolare gli afflitti
MISERICORDIA
COME CONSOLAZIONE
Il Giubileo straordinario della Misericordia ci ha lasciato in eredità un’indicazione più sicura e luminosa del cammino che la Chiesa deve seguire. «La misericordia – scrive papa Francesco – non può essere una parentesi nella vita della Chiesa, ma costituisce la sua stessa esistenza».
La misericordia si esprime in molteplici comportamenti concreti, che nella tradizione cristiana sono state sintetizzati fondamentalmente nelle Sette opere di Misericordia Corporale e nelle Sette Opere di Misericordia Spirituale. Tra queste ultime, una fa riferimento al “Consolare gli afflitti”.
Scrive papa Francesco: “La misericordia possiede anche il volto della consolazione… È vero, spesso siamo messi a dura prova, ma non deve mai venire meno la certezza che il Signore ci ama. La sua misericordia si esprime anche nella vicinanza, nell’affetto e nel sostegno che tanti fratelli e sorelle possono offrire quando sopraggiungono i giorni della tristezza e dell’afflizione. Asciugare le lacrime è un’azione concreta che spezza il cerchio di solitudine in cui spesso veniamo rinchiusi… Tutti abbiamo bisogno di consolazione perché nessuno è immune dalla sofferenza, dal dolore e dall’incomprensione… Una parola che rincuora, un abbraccio che ti fa sentire compreso, una carezza che fa percepire l’amore, una preghiera che permette di essere più forte... sono tutte espressioni della vicinanza di Dio attraverso la consolazione offerta dai fratelli”.
L’esercizio della consolazione degli afflitti è testimoniato anzitutto dall’agire di Gesù. Egli si ‘ferma’, ‘avvicina’ chi è nel bisogno e soffre, lo ‘tocca’, gli asciuga le lacrime, gli ‘dona’ vita e speranza.
Consolazione: significato,
modalità e condizioni
Consolare significa offrire sollievo morale, conforto, incoraggiamento, serenità. Ci si china su chi è piegato dalla sofferenza perché possa sollevarsi: gesto profondamente umano, perché “non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti al collo, possa rialzarsi” (L. Pintor).
Le situazioni in cui possono trovarsi persone che hanno bisogno di consolazione (coloro che chiamiamo “afflitti” non si contano: la perdita di una persona cara, un insuccesso, un crac economico o la perdita del lavoro, una malattia, un grande dispiacere, il fallimento matrimoniale o una situazione famigliare molto pesante, un amore non corrisposto, una serie di circostanze di vita particolarmente negative, la perdita di una posizione di prestigio o di potere, un forte senso di colpa…
L’azione del consolare si realizza molto spesso attraverso parole che diciamo alla persona che si trova nel dolore, ma anche attraverso un gesto (una carezza, un abbraccio), una lettera, una telefonata (un sms), una preghiera, senza trascurare in certi casi la stessa vicinanza fisica silenziosa. La consolazione può essere esercitata da una singola persona o da un gruppo ristretto di persone; altre volte può essere un’intera comunità che con la sua partecipazione collettiva vuole esprimere vicinanza e conforto a chi è duramente provato dal dolore.
La consolazione richiede rispetto, tatto, delicatezza. Soprattutto chiede quella capacità empatica che permette di cogliere e rispettare la sensibilità e i bisogni della persona che si vuole consolare (come dire che l’atto del consolare deve essere ispirato a ‘prudenza’, che è la prima delle quattro virtù cardinali: ogni atto infatti è buono se è prudente). E’ necessario saper ‘modulare la distanza’ tra chi vuole consolare e chi viene consolato: quest’ultimo, infatti, a volte può aver bisogno di sentire una vicinanza stretta, quasi ‘intima’; altre volte, invece, può provare un certo pudore nella sua sofferenza, vuole essere lasciato solo con il suo dolore, come un animale ferito che si nasconde dietro una siepe dopo che è stato colpito.
Che cosa possiamo ragionevolmente proporci come obiettivo quando cerchiamo di consolare qualcuno che è nel dolore? È facile immaginare che la risposta debba essere assai diversa, a seconda ad esempio del tipo di sofferenza che ci si trova di fronte, delle caratteristiche e delle condizioni concrete della persona che soffre, della qualità del legame che esiste tra chi offre e chi riceve consolazione. In alcuni casi si tratterà di intervenire, per quanto è possibile, sulle cause della sofferenza o comunque ‘fare’ qualcosa che possa essere di concreto aiuto alla persona sofferente. Spesso, però, questo è pressoché impossibile. Allora cercare di offrire consolazione e conforto non può significare – dato e non concesso che sia possibile – impedire all’altro di provare dolore. È invece più realistico cercare di creare quelle condizioni che fanno sentire la persona meno sola nel suo dolore e che la aiutino a non lasciarsi andare ad atteggiamenti negativi (disperazione, senso di impotenza, perdita di fiducia in se stessa, complesso di inferiorità, angoscia da abbandono...); a guardare alla situazione di sofferenza con fiducia e speranza e – per chi ha il dono della fede – con atteggiamento di abbandono alla volontà di Dio, nella consapevolezza che «e‘n la sua volontate è nostra pace». Siamo, in definitiva, di vero aiuto a chi soffre non se impediamo che il dolore faccia soffrire, ma se facciamo in modo che la persona non si senta schiacciata e impotente o interiormente lacerata di fronte all’esperienza del dolore, e sperimenti la possibilità di poterla liberamente condividere con un altro che è capace con lei di accettarla e viverla con pazienza e speranza.
Consolare
con le parole
Una delle modalità più frequenti con cui cerchiamo di consolare persone che sono nel dolore si realizza attraverso le parole che diciamo. Facciamo qualche breve considerazione al riguardo. Anzitutto, sembra ovvio – ma non è affatto scontato – che le parole che diciamo debbano essere sincere, espressione quindi di autentici sentimenti di compassione e vicinanza (e quando è così, non è necessario cercare di rafforzare nell’altro la sensazione che gli siamo vicini dicendo ad esempio: sappi che ti sono vicino, sentimi vicino; oppure, peggio: vorrei che tu sentissi che ti sono vicino). Chi vuole offrire consolazione al suo prossimo deve avvicinarsi a lui con parole vere: parole di circostanza, frasi fatte, dichiarazioni retoriche e vuote non creano intimità, ma allontanano. Trovandosi di fronte a situazioni drammatiche, umanamente assurde, molto spesso “non si sa cosa dire”; in questi casi è preferibile una vicinanza silenziosa e carica di compassione, perché – come ricorda Bonhoeffer – è più saggio fare silenzio e non tentare di risolvere quello che è senza soluzione.
In secondo luogo, nel parlare ad un altro per consolarlo e offrirgli aiuto è bene avere un’altra “attenzione”. Non è facile, di norma, affrontare le forti emozioni di una persona, come ad esempio una profonda angoscia, una disperazione incontenibile, una rabbia irrefrenabile. Queste situazioni possono evocare più o meno inconsciamente in noi i fantasmi di esperienze dolorose del nostro passato, caricando così di un significato autobiografico queste stesse situazioni. E sentendole inconsciamente insopportabili, finiamo facilmente per dire parole che… servono più a noi che all’altro. Il nostro parlare rischia allora di debordare, assumendo quasi un carattere compulsivo, con una sottile pressione sull’altro perché “reagisca”. Il messaggio che inconsapevolmente metacomunichiamo diventa questo: “la tua sofferenza è così forte che sto male anch’io. Cerca dunque di reagire e non stare troppo male”.
Infine, se vogliamo consolare con le nostre parole persone che soffrono, dobbiamo fare in modo che il nostro dialogo con loro risponda il più possibile ai bisogni che queste hanno. Ora, solitamente coloro che si trovano in una grande sofferenza hanno bisogno soprattutto di essere ascoltati e compresi nel loro dolore. Ecco perché offrire aiuto e conforto in questi casi significa soprattutto essere capaci di ascolto empatico, cioè fare in modo che quello che diciamo metacomunichi loro che li stiamo veramente ascoltando e comprendendo nel loro dolore. Questo ci fa sentire realmente vicini e dà loro la possibilità di non sentirsi soli. L’ascolto empatico, inoltre, offre alla persona la possibilità di verbalizzare i propri sentimenti negativi, che vengono vissuti in tal modo come meno opprimenti. L’ascolto empatico diventa un esercizio concreto di quell’ “apostolato dell’orecchio” di cui spesso parla papa Francesco.
Condizioni previe
per una consolazione efficace
È opportuno richiamare alcune “condizioni previe” che ci rendono capaci di offrire reale sostegno e conforto a chi soffre.
Anzitutto, si richiede di sviluppare in noi un atteggiamento di apertura all’altro e di interesse autentico per il suo benessere, coltivando quella particolare sensibilità umana che diventa di volta in volta gentilezza, vicinanza, premura, responsabilità, rispetto, capacità empatica. Le persone che irradiano pace e serenità, fiducia e speranza sono tra coloro che meglio possono consolare chi soffre. Diventiamo capaci di consolare se impariamo a porre più spesso a quanti incontriamo una domanda che nel Vangelo troviamo in bocca a Gesù: “Cosa vuoi che io faccia per te?”. Si tratta, in definitiva, di “avere in noi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”, cioè “sentimenti di compassione e di amore”.
In secondo luogo si richiede una certa maturità umana, sicurezza emotiva e capacità di essere in contatto con i propri vissuti, così da riuscire a identificare ciò che ci appartiene nel sentimento che stiamo provando mentre cerchiamo di consolare l’altro e ciò che non ci appartiene; ciò che fa parte del dramma della persona che abbiamo davanti e ciò che invece, facendo parte alla nostra storia personale, siamo portati a sovrapporre al suo dramma. La capacità di controllo emotivo ci rende capaci di reale vicinanza e quasi “identificazione” unite ad un certo “distacco”: se vogliamo parlare all’altro, abbiamo bisogno di separare il nostro dolore dal suo; abbiamo bisogno di districare il nostro passato dal presente, di fare pace con i fantasmi delle esperienze dolorose del passato.
Ancora: essere capaci di consolazione richiede che siamo sufficientemente calmi e non ci lasciamo prendere dalla fretta e dalla frenesia del fare. Solo così possiamo cogliere la sofferenza e il bisogno dell’altro, riducendo la distanza tra noi e lui e creando prossimità. Scrive a questo proposito E. Bianchi: «La società tecnologica elimina sempre di più la dimensione della prossimità dei vissuti e crea una concreta distanza tra gli uomini. Non c’è più l’altro che sta vicino, quello su cui poso la mano, e così il trionfo dell’indifferenza e dell’individualismo esasperato conduce alla morte della carità… Ce ne stiamo ciascuno lontano dagli altri per indifferenza o per paura; perché non abbiamo tempo e corriamo dal mattino alla sera; perché non abbiamo più voglia dell’altro, sempre più lontano, sempre meno invitato e accolto in casa nostra; perché non abbiamo più il desiderio di prendere tra le mani il volto e le mani di un altro». Se ciò si dovesse manifestare in un sacerdote o in una religiosa – persone che potremmo dire sono chiamate per “vocazione” a consolare –, allora la cosa sarebbe davvero triste. A chi sfortunatamente dovesse incontrarli verrebbe da fare la stessa considerazione di Renzo: “Se un prete, in funzione di prete, non ha un po’ di carità, un po’ d’amore e di buona grazia, bisogna dire che non ce ne sia più in questo mondo”.
Infine, quando vogliamo consolare chi soffre ci confrontiamo necessariamente con il problema del dolore. È inevitabile quindi che la possibilità e la capacità di consolare dipenda anche, e soprattutto, da come ciascuno di noi si pone abitualmente di fronte al problema della sofferenza, in particolare nelle sue manifestazioni più tragiche e devastanti (ad esempio, una malattia fortemente invalidante, la perdita di un figlio…). Non possiamo sfuggire ad alcuni interrogativi esistenziali che ci interpellano fin dai primi anni di vita, che riguardano il senso della vita stessa, il senso del dolore, la morte…, e ai quali non è facile rispondere. Gli atteggiamenti che ciascuno di noi ha sviluppato al riguardo vengono facilmente percepiti dalle persone alle quali vogliamo offrire consolazione: esse avvertono facilmente se noi crediamo o no in quello che diciamo, se abbiamo fiducia, se abbiamo speranza.
A questo punto è facile rendersi conto che per affrontare adeguatamente il tema della consolazione non può essere sufficiente limitarsi agli aspetti psicologici: si deve fare riferimento anche alla visione che si ha della persona e alla teologia. La riflessione però si allargherebbe notevolmente; basti quindi questo richiamo estremamente sintetico, ricordando che per i cristiani, «la grandezza suprema del cristianesimo viene dal fatto che esso non cerca un rimedio soprannaturale contro la sofferenza, bensì un impiego soprannaturale della sofferenza» (S. Weil). Il cristiano diventa capace di consolare gli afflitti nella misura in cui, sostenuto dalla fede e con l’aiuto della preghiera, sperimenta l’amore di Dio che non protegge da ogni sofferenza, ma protegge in ogni sofferenza.
Come altrimenti potremmo veramente rispondere ai perché di chi soffre, se di fronte al nostro dolore siamo muti?
d. Aldo Basso