Prezzi Lorenzo
E' ancora una virtù?
2017/12, p. 21
L’obbedienza e la pratica dell’obbedienza nella vita consacrata ripropongono la valenza cristologica e liberante del terzo voto. Intervista a p. Ugo Sartorio.

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Testimoni
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L’obbedienza religiosa
È ANCORA
UNA VIRTÙ?
L’obbedienza e la pratica dell’obbedienza nella vita consacrata ripropongono la valenza cristologica e liberante del terzo voto. Intervista a p. Ugo Sartorio
Ha dedicato oltre 300 pagine al tema dell’obbedienza (L’obbedienza religiosa).1 Può darmene una sintetica definizione?
Stare in ascolto di Dio, attenti e aperti alla sua Parola e alla sua azione nella propria vita e nella storia del mondo, non senza la mediazione dei fratelli e di coloro che sono posti in autorità. Ognuno di questi poli dev’essere presente, tenendo conto che il confronto con i fratelli e con l’autorità è a servizio della fondamentale obbedienza a Dio. D’altra parte, si obbedisce a Dio dentro una trama di relazioni che provocano continuamente al discernimento.
– Pensare oggi l’obbedienza nella vita consacrata obbliga ad aprire orizzonti vasti: vi è quella dell’istituto al carisma e alla Chiesa, quella personale a Dio, quella dei superiori, quella dei fratelli e delle sorelle. Come si colloca il voto personale in tale contesto?
Senza accogliere la propria parabola esistenziale davanti al Signore, soprattutto nei suoi punti di fragilità, non si dà obbedienza cristiana e tantomeno religiosa. Senza riferimento agli altri, alla comunità, a coloro con i quali si condivide la quotidiana avventura del quærere Deum, non è possibile parlare di obbedienza, e ugualmente se non si accetta che esista una qualche forma di autorità. Il voto di obbedienza è eminentemente relazionale, e tiene il soggetto aperto alle fondamentali dimensioni dell’esistere, sia personale che comunitario, lo tiene, per così dire, in allerta, perché il Signore passa ogni giorno nella nostra vita. Il voto di obbedienza, detto ancor più chiaramente, è del tutto impossibile da vivere in solitaria, è un voto “poroso”, che viene alimentato nella e dalla relazione, sia verticale che orizzontale. Per questo richiede una buona maturità umana e spirituale.
Da Pacomio
ad oggi
– Guardando dal punto di vista storico quali sono, a suo avviso, i passaggi e i modelli maggiori della teoria e pratica dell’obbedienza religiosa?
La trattazione storica dell’obbedienza religiosa segue, nel mio lavoro, il percorso classico caratterizzato dall’affermarsi, dalla crescita e dallo sviluppo di questa forma di vita all’interno della Chiesa: Padri del deserto, Pacomio, Basilio, Agostino, Benedetto, Francesco e Ignazio, le Congregazioni più recenti e gli Istituti secolari. Una cosa curiosa è il fatto che la vita religiosa nasce senza obbedienza, poiché la fuga mundi dei primi anacoreti è al contempo una fuga hominis che si spinge fino alla fuga fratris. Solo con lo stabilizzarsi, dopo alcuni passaggi intermedi, della vita cenobitica, l’obbedienza assume un’ineliminabile valenza comunitaria che dovrà con il tempo misurarsi con lo slancio missionario il quale porta, in qualche modo, la comunità a disperdersi in un movimento di sistole e diastole. Possiamo dire, schematizzando al massimo, che nella storia sono presenti sostanzialmente tre tipi di obbedienza: il primo legato alla fede, con la centralità anche strutturalmente visibile del primato di Dio e della sequela Christi (il monachesimo, nelle sue molteplici espressioni); il secondo più legato alla carità, al rapportarsi reciproco tra fratelli (ordini mendicanti); il terzo anch’esso centrato sulla carità ma nel suo orientarsi all’annuncio del Vangelo, alla missione apostolica (gesuiti, congregazioni religiose, istituti secolari).
– Quali sono le fonti bibliche più citate in merito? In particolare il riferimento cristologico?
Se, in senso generale, vi è un intimo legame tra vita consacrata e Vangelo, nel senso che è possibile individuare il fondamento dei consigli evangelici nelle parole e negli esempi del Signore (cf. LG 43), con il concilio Vaticano II è stato superato l’approccio cosiddetto “antologico” alla Scrittura per fondare in essa, in modo diretto, vale a dire su singoli brani o versetti, i voti religiosi. In verità, questo collegamento a precisi passi della Scrittura è sempre stato, per l’obbedienza religiosa, più problematico rispetto agli altri due voti. Non si parla mai, nei Vangeli, della proposta rivolta a qualcuno e non a tutti di sottomettere la propria volontà a quella di un altro uomo in vista della salvezza.
Il riferimento cristologico, per rispondere alla domanda, non può mancare, ma è l’intera vita di Gesù nel suo farsi obbediente al Padre senza trattenere nulla per sé, per cui emergono sugli altri alcuni testi giovannei (Gv 4,34; 5,30, 6,38) e paolini (Fil 2,7-8) insieme a Eb 5,8 e 10,5-7. Il fatto è, però, che nessun religioso si lamenta della sua obbedienza a Dio o a Gesù Cristo, ma non pochi si lamentano invece del difficile rapporto obbedienziale che intrattengono con il superiore (termine che il recente documento della CIVCSVA Per vino nuovo otri nuovi vorrebbe mandare in pensione, cf. n. 42). Certo, come tutti i cristiani, i consacrati devono obbedire totalmente a Dio, ma si entra nel proprium del voto religioso quando si focalizza il rapporto tra consacrato e autorità, non necessariamente di un singolo.
Talenti
e obbedienza
– Come declinare oggi il rapporto obbedienza e libertà, il vincolo comunitario e la creatività personale?
Questo è il punto! La gran parte dei problemi deriva dalla non facile coniugazione di dato soggettivo e dato oggettivo, di storia della libertà individuale e percorso comune nel solco di una tradizione carismatica caratterizzata da riferimenti condivisi (regola e/o costituzioni). Sviluppo questo aspetto partendo da lontano, utilizzando cioè la riflessione del filosofo canadese Charles Taylor sull’emergere contemporaneo di un nuovo immaginario della libertà fondato sull’individualismo espressivo e sulla cultura dell’autenticità. Se si prende sul serio il criterio dell’autenticità, secondo le precisazioni indicate da Taylor, oltre a quella di colui che è sollecitato a obbedire, risulta accresciuta, senza alcun dubbio, anche la responsabilità dei superiori, che non sono chiamati solo a far funzionare la macchina dell’apostolato o a regolare nel modo migliore le dinamiche comunitarie, ma sono messi faccia a faccia con un nuovo genere di soggettività, non solo giovanile, che ha sostanzialmente introiettato i nuovi modelli culturali e li ritiene plausibili anche all’interno di un quadro di fede e vocazionale in senso stretto. Se la vocazione, come chiamata a uscire da sé in modo radicale, domanda di lasciare tante cose, non chiede però né di snaturare se stessi né di mettere in parcheggio doti personali o di annullare legittime propensioni. Non stiamo parlando di capricci, di pretese estemporanee, di ricerca di condizioni favorevoli alla gratificazione personale, ma del desiderio profondo di essere riconosciuti in quella unicità che non può essere livellata pena la perdita di qualcosa di essenziale. Se da una parte il “talento” della persona non può automaticamente tradursi in vocazione, un percorso vocazionale che non tenesse in conto alcuno il “talento” personale, sarebbe (diversamente da ieri) destinato al fallimento.
– Può indicare qualche malattia e qualche frutto positivo dell’obbedienza?
C’è il rischio, soprattutto in tempi in cui la vita consacrata è troppo occupata a ripensare e ridimensionare se stessa, almeno in Occidente, che l’emergenza favorisca il prendere piede di forme di neoautoritarismo, in particolare in ambito femminile. Oppure che il diradarsi delle fila suggerisca improvvide regressioni al solo duetto superiore-suddito, bypassando le splendide acquisizioni sulla dimensione comunitaria (tutti nei confronti di tutti) dell’obbedienza religiosa. Tra l’altro è innegabile che l’obbedienza fraterna, quando c’è, è sempre più genuina di quella verticale, nei confronti del superiore, non fosse altro per il fatto che è meno motivata dalla compiacenza e generalmente non procura vantaggi immediati.
Chi parla della dissoluzione, ai nostri giorni, del voto di obbedienza, pecca di pessimismo e rischia di non vedere “tutta l’obbedienza che c’è”, a volte con costi umani anche alti. La gran parte dei consacrati desidera seguire il Signore e, se non sempre come deve, lo fa come può, comunque con generosità ed entusiasmo. Molti vivono con la pace nel cuore dopo obbedienze che li hanno limati e anche duramente provati, confermando la propria fiducia a Dio e ai fratelli.
Immagine
deformata
– Il contesto culturale e civile contemporaneo è poco propenso a una valutazione positiva dell’obbedienza. È ancora una virtù comprensibile?
Fino al Concilio l’obbedienza era il voto più scontato, in sintonia con il vissuto societario, mentre a partire dal ’68 c’è stata una vera e propria rivoluzione che si può sintetizzare nell’espressione secondo la quale “l’obbedienza non è più una virtù” (in verità, don Milani si riferiva unicamente al diritto di fare obiezione di coscienza al servizio militare). Se guardiamo bene, oggi le scienze umane, la pedagogia in primis, hanno poco o nulla da dire sull’obbedienza, e sappiamo che di questa si può parlare a stento con i bambini. Di fatto, l’obbedienza ai genitori dura finché dura, cioè molto poco, e già con la preadolescenza si cavalca, con grande disinvoltura e a volte in modo del tutto spregiudicato, il libero arbitrio.
Se questo è vero, chi ci vede da fuori fatica a capire perché e come delle persone adulte facciano riferimento a dei superiori per scelte che sono determinanti per la propria vita. L’obbedienza viene intesa e tradotta mentalmente come sottrazione di libertà ed esercizio limitato dell’autodeterminazione, quindi unicamente in termini negativi, come se si trattasse di una condotta militaresca. E a volte sono gli stessi consacrati che alimentano questa visione vittimistica e doloristica, maggiorando in tal modo i già troppi fraintendimenti. Penso che si debba avere il coraggio di parlare di più di questo voto, soprattutto con i laici, mostrando loro il volto positivo e bello dell’obbedienza, soprattutto il fatto che attraverso di essa noi apparteniamo al Signore e lo serviamo in pienezza, anche maturando un’umanità piena e rigogliosa, il che non significa che non vi siano anche passaggi difficili, sofferenze e incomprensioni.
– Dei documenti conciliari e post-conciliari quali sceglierebbe per proporre alla meditazione sull’obbedienza?
Il testo conciliare di Perfectae caritatis 14 è importante perché avvia il processo che collocherà la figura del superiore dentro la comunità, non soltanto sopra o di fronte ad essa, quindi al di là dell’autoritarismo di un certo passato. Da parte sua, l’Evangelica testificatio di Paolo VI mette a fuoco il discorso circa l’obbedienza e la sua plausibilità in un delicato frangente di radicale contestazione di ogni autorità. Il punto di arrivo, ancora insuperato, della riflessione postconciliare è Il servizio dell’autorità e l’obbedienza del 2008, un testo lineare e sufficientemente completo, che ha il merito di trattare insieme di autorità e obbedienza, sul presupposto che un esercizio evangelico dell’autorità facilita un vissuto obbedienziale più autentico.
Declinazioni
recenti
– Quali sono le sintonie e le diversità nella presentazione dell’obbedienza fra alcuni dei teologi contemporanei che più l’hanno studiata: Tillard, Paredes, Pigna, Farina, Bianchi?
Per Iean-Marie Tillard l’obbedienza religiosa è tutta riferita alla costruzione di quella koinonia che sta al cuore della Chiesa; di questa koinonia la comunità religiosa, caratterizzata da vincoli di obbedienza verso l’alto e tra fratelli, è una significativa intensificazione. José Cristo Rey Garcìa Paredes lega a doppio filo l’obbedienza, come tutta la vita consacrata, alla missione, in linea con l’attuale magistero di papa Francesco. Arnaldo Pigna, ponendo al centro il concetto di consacrazione, legge l’obbedienza in chiave cristocentrica e nel solco della più genuina tradizione. Marcella Farina aiuta a capire che cosa significa obbedire ed esercitare l’autorità al femminile, andando oltre l’asimmetria dei sessi e dei ruoli. Infine, Enzo Bianchi rilegge sostanzialmente l’obbedienza in chiave monastica con riferimento alle grandi regole del passato. Come ogni elemento costitutivo della vita religiosa, egli ritiene necessario che anche l’obbedienza non conduca all’alienazione, ma favorisca piuttosto un cammino di umanizzazione.
Lorenzo Prezzi
1Sartorio Ugo, L’obbedienza religiosa. Contesto, memoria storia e contributi del magistero e della teologia nella recezione postconciliare, Áncora, Milano 2017, pp. 328, € 20,00.