Dalla "superiorità" alla "diaconia"
2017/11, p. 24
L’ autorità nella Chiesa è valutata in base al suo carattere
di «servizio», che non lo è quando nei discepoli di Cristo
traspare, invece, la preoccupazione di sé, del rango, di
carrierismo, delle precedenze, di quell’eccedere che si
manifesta anche negli abiti nelle insegne e nei titoli
antievangelici: eminenza, eccellenza, superiore, superiora.
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«Rimanete in ciò che fu fin dall’inizio»
DALLA “SUPERIORITÀ”
ALLA “DIACONIA”
L’ autorità nella Chiesa è valutata in base al suo carattere di «servizio», che non lo è quando nei discepoli di Cristo traspare, invece, la preoccupazione di sé, del rango, di carrierismo, delle precedenze, di quell’eccedere che si manifesta anche negli abiti nelle insegne e nei titoli antievangelici: eminenza, eccellenza, superiore, superiora.
All’inizio della Chiesa le giovani comunità neotestamentarie per descrivere le funzioni al proprio interno, usano la parola «diakonia» che in linguaggio corrente andrebbe tradotta con «servizio a tavola». La preferenza del termine laico era dovutao al fatto che Gesù ha sempre evitato espressioni attinenti ad autorità civili o religiose, escludendo così radicalmente nella vita della comunità ogni somiglianza con il sistema di potere gerarchico e di sottomissione in uso nella società, per dichiarare invece che l’essere veri discepoli del Signore è dato unicamente dalla fedeltà al «voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8-9).
Con il dire «servizio a tavola» si ricreava allusivamente – scrive H.Küng – l’atmosfera del banchetto, laddove più che in ogni altra occasione risaltava la differenza tra padrone e schiavo, tra signori adagiati attorno alla mensa e servitori.
Gesù e la logica
del potere
Se Cristo seduce ancora è perché rifiuta le logiche del potere.
Parlando di «potere» si utilizza un termine dal significato complesso e non privo di ambiguità. Il potere di governo è una cosa necessaria in tutte le società partecipative. Anche la Chiesa ha bisogno di un’autorità che però per essere adeguata alla promozione del suo annuncio deve saper fare il passaggio dall’autorità che preserva se stessa servendosi delle persone, ad autorità a servizio delle persone. Nel nostro tempo se essere consacrati significa dare attualità, presenza, incidenza storica a ciò che Cristo è stato e ha fatto, non può essere considerata come secondaria la questione della sua «figurazione», perché se non rimanda a Cristo, costituisce per l’osservatore una cortina densa e confusa che il messaggio di Gesù non riesce ad attraversare per far percepire il suo fascino.
Si tratta allora di prendere le distanze da tutto ciò che si nutre di apparenze. Il potere è soggetto ad un fenomeno: con il decrescere dell’essenzialità aumenta di pari passo, in proporzione della povertà della fede, l’estetismo e l’ offerta di simboli di una realtà che stride per la lontananza dalla Parola che predica, avendo dimenticato che Cristo ha stigmatizzato le forme di teatralità religiosa di coloro che «cercano onori, titoli, manifestazioni di ossequio …».
L’ autorità nella Chiesa è valutata in base al suo carattere di «servizio», che non lo è quando nei discepoli di Cristo traspare, invece, la preoccupazione di sé, del rango, di carrierismo, delle precedenze, di quell’eccedere che si manifesta anche negli abiti nelle insegne e nei titoli antievangelici (eminenza, eccellenza, superiore, superiora): tutte cose che non rimandano al servizio ma a chi, un tempo, sedeva alla destra o alla sinistra del potente.
Preoccupati del prestigio anziché del servizio sono inoltre coloro che sono stati bollati da Gesù con queste parole: «si arrogano addirittura il posto di Dio». Cingersi di una aureola divina è sempre stata la scorciatoia del potere per evitare di essere messo in discussione. Ma – diceva Y.Congar – «pensare ad una azione sostitutiva, vicaria nei confronti di Dio o di Cristo è del tutto gratuito, perché Dio, Cristo, lo Spirito, non sono assenti: invisibili ma presenti».
Agli inizi del monachesimo – nato dal non voler tradire il Vangelo – chi ha autorità scrive san Basilio (330-379) «non è il capo e neppure può essere detto il rappresentante di Dio, ma è l’ occhio attento, vigile, discreto, premuroso». Anche in san Benedetto dapprima è presente l’istanza di fraternità: «nessuno sia chiamato priore – si legge nella regola – ma tutti si chiamino fratelli minori». Ed ancora: «è compito dell’abate servire e aiutare i fratelli più che dominare su di loro.
Storia di una deriva
che continua
Successivamente però a queste espressioni se ne accompagneranno via via altre che fanno intravedere l’inizio dell’orientamento del potere gerarchico all’interno della struttura comunitaria. Ad esempio, in relazione all'abate benedettino, la Regola darà spesso ai monaci il nome di «discepoli», anziché di «fratelli». Contestualmente nel IV secolo, l’eredità culturale costantiniana, influendo sempre più sulla Chiesa, la portò a trovarsi bene nell’esprimere l’autorità come «signoria» anziché come servizio. L’eccedenza del potere gerarchico andò via via a farsi normativamente evidente nei testi (Regole, Consuetudinari) di quella forma di vita evangelica che doveva essere la più espressiva dell’agire di Gesù. Fu così che l’autorità andò a configurarsi sempre più ai paradigmi della società del tempo, dimenticando molto, o del tutto, il comando di Gesù: «tra voi non sia così», per cui l’«ultimo» divenne il «primo», l’«inferiore» divenne «superiore», il «servo» divenne «signore»: era ciò che reclamava Gregorio VII (XI sec.): «la Chiesa non è serva ma «signora», «Ecclesia non est ancilla sed domina».
Più tardi avvenne che i canonisti anteriori a Suarez (XVI sec) presentassero la potestà dell’abate come «dominativa», in virtù della quale essi sono «padroni assoluti» della volontà dei loro «sudditi». S.A.Rodriguez ancora prima aveva scritto: risulta davvero significativo e doloroso che per definire l’autorità nella vita consacrata, i giuristi nel passato non abbiano trovato altre espressioni meno infelici e contrarie alla verità evangelica di potestà dominativa denominazione ancora presente nel Codice di Diritto Canonico del 1917 (c. 501 §1) in uso fino al 1983 . Non ci si deve allora meravigliare se anche nell’attuale Codice è presente il termine di “suddito” (can.618 e can.630 §4). E’ così spiegato il fatto che il concetto di «autorità» nato dall’essere un servizio dell’uomo per l’uomo, si portò in varie epoche – come dimostrò Y.Congar – ad essere un potere dell’uomo sull’uomo, quale «contagio del paganesimo».
Nel XVI secolo il card.Bellarmino, teorizzò la Chiesa come «società perfetta», intendendo una società gerarchica, «piramidale», «teocratica», «sacrale» e «clerocentrica», fatta di «signori e sudditi», «padroni e servi». È qui evidente il passaggio dalla società fraterna e dunque eguale, alla «società ineguale» con la conseguenza che nella Chiesa il rapporto autorità-obbedienza andò cristallizzandosi sempre più come rapporto tra «superiore» e «suddito dando vita a quella che Y.Congar non esita a definire una vera e propria «gerarcologia». Ed è così che – con il dire di K.Barth – «il cristianesimo invece di lasciar accadere che fossero le forze dell’evangelo a farlo vivere ha preferito conservarsi in vita a spese dell’evangelo».
La teoria di societas inaequalis fu poi ripresa da Leone XIII con il dire che nella Chiesa si trovano due categorie di persone, che costituiscono due ordini «di loro natura» distinti. Teoria fatta propria da Pio X nell’enciclica Vehementer nos in cui si parla di una Chiesa dove da una parte ci sono i pastores, hierarchia, rectores, e dall’altra grex e moltitudo.
Una nuova concezione
antropologica
Nell’Istruzione «Il servizio dell’autorità e obbedienza» c’è la presa d’atto che con il cambio d’epoca siamo entrati in una fase di straordinaria, nuova sperimentazione antropologica, che apre alla edificazione di una nuova figura di umanità che porta a ritrovare forza ricombinando in modo creativo e responsabile il principio di fraternità, la quale per essere vera e comprensibile deve farsi carico di una nuova uguaglianza e una nuova libertà che agevoli il passaggio da struttura burocratica del sacro a fraternità che rinvia all’assoluto evangelico, a spazio di incontro tra il divino e l’umano.
L’autorità allora è chiamata a passare dall’avere al dare potere, avulsa da ogni dirigismo vetusto, perché al centro dell’attuale cultura c’è la mutua collaborazione responsabile e generosa, senza la delega a qualcuno affinché pensi e decida per gli altri, ma l’individuo come principio e come valore. Per fare questo la Chiesa non deve temere di prendere le distanze da se stessa, da un certo stile, da un determinato linguaggio per meglio dire che «l’obbedienza è il luogo dell’offerta cosciente e corresponsabile, nella convinzione che maturità vera è accettare il processo del reciproco arricchimento». Così intesa l’obbedienza porta al cuore del vangelo per il quale non c’è la sottomissione ad altri, quanto invece l’essere liberi dinanzi alla volontà di Dio, dentro la comunione con un gruppo di fratelli (comunità cristiana), animati dal medesimo intento di abbattere i limiti del proprio desiderio. Evidentemente è necessario che ognuno per la sua parte, sappia cogliere la grande distanza che talvolta intercorre tra la volontà di Dio e la propria, sempre tendenzialmente esposta e propensa a derive che con la volontà di Dio non hanno nulla da spartire.
Ne consegue che nel riflettere sull’obbedienza occorrerà liberarla concettualmente dal binomio superiore-suddito, perché altrimenti, comunque vada, a disobbedire non può essere che il «suddito», mentre il discorso sull’obbedienza deve avere forte il riferimento alla volontà di Dio.
È arrivato il tempo di consentire al Signore di “immergerci nella lisciva dei lavandai” (Mal 3,2).
Nel corso della storia ci sono stati dei tempi in cui le istanze evangeliche si erano affacciate: tempi in cui la Chiesa sentiva di dover ritrovare la sua ispirazione, il suo primo fermento. Il pensiero va in modo particolare a Francesco di Assisi per il quale «la visione gerarchizzata derivava dal concepire la società divisa in classi» mentre la fraternità per se stessa è un insieme di eguali (fratelli) che non ammette gradazioni di dignità.
Specialmente nell’ottocento ci furono voci profetiche come Möhler e Rosmini che si erano alzate a dire che si era offuscata l’idea di Chiesa intesa come annuncio gioioso e liberante del mistero rivelato in Cristo. Voci isolate che vedevano la necessità di immergere nella lisciva i concetti di autorità e obbedienza, per il fatto che non si può considerare più sacra la storia che il Vangelo.
Oggi, specie dopo il decreto conciliare «Dignitatis humanae», nessuno pensa che l’autorità vada privilegiata rispetto alla verità, perché il dovere di ogni cristiano non può essere che quello della verità al di sopra di ogni disciplina di parte. Non è più il tempo in cui il filosofo T. Hobbes (XVII secolo) poteva dire: «non la verità, ma la forza dell’autorità fa la legge» (auctoritas, non veritas, facit legem). Da cui i dogmi pratici: «chi obbedisce non sbaglia mai»; «l’obbedienza è la suprema virtù. Non stupisce allora che s.Ignazio nel suo trattato sugli Esercizi Spirituali scrivesse: «quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la chiesa gerarchica». Ma la verità non si impone che in virtù della stessa verità. C’è un cardine del pensiero contemporaneo che dice: «ogni affermazione deve stare in piedi da sola».
Francesco chiama coloro che hanno autorità non «signori» bensì ministri e servi dell’obbedienza: se è servizio non è sopra (da cui i termini antievangelici di superiore e superiora). Autorità (da auctor) è aiutare senza impadronirsi della libertà di scelta della persona, pur indirizzandola e sostenendola nella decisione, sapendo stare sulla soglia, per non far violenza alla libertà. È farsi servi dato che il loro servizio entra in una prospettiva eminentemente teologica, «costituita da una scala di valori al cui vertice non è più l’autorità del ministro ma la volontà di Dio.
È sedersi accanto, cioè vivere una vicinanza, una solidarietà che non è fatta soltanto di confronto di idee ma che diventa una condivisione della fatica, delle incertezze, delle paure, delle gioie.
Concludendo: la comunità cristiana – come disse il teologo W.Bühlmann – per essere a misura del suo Fondatore, non ha bisogno di prìncipi, ma di santi, di martiri, di testimoni della dignità dell’uomo; di gente con il grembiule ai fianchi, come il servo Gesù «il quale – scrive E.Ronchi – non esige, sostiene; non pretende, si prende cura; non rivendica diritti, risponde ai bisogni».
Rino Cozza csj