Ferrari Gabriele
Il Vangelo, la Chiesa, il tempo
2017/10, p. 24
Per rispondere alla nuova situazione del mondo, è necessario che la Chiesa rinnovi la sua «forma ecclesiae» secondo un duplice criterio, l’evangelizzazione e la sinodalità.1 Sono due realtà del Vaticano II che è tempo siano utilizzate nella pienezza del loro significato.

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Testimoni
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Riforma della Chiesa
IL VANGELO
LA CHIESA, IL TEMPO
Per rispondere alla nuova situazione del mondo, è necessario che la Chiesa rinnovi la sua «forma ecclesiae» secondo un duplice criterio, l’evangelizzazione e la sinodalità
Sono due realtà del Vaticano II che è tempo siano utilizzate nella pienezza del loro significato.
In questo nostro tempo di rapidi e successivi cambiamenti la Chiesa deve trovare un nuovo modo di essere nel mondo e per il mondo, una nuova maniera di esercitare la sua missione di salvezza che sia coerente con il “cambiamento d’epoca” che il mondo sta vivendo e questo a tutti i livelli se vuole essere davvero quello che deve essere: il sacramento, il segno del Signore e della sua salvezza per il mondo di oggi. Non può più continuare a distinguere due modi di essere, uno per la sua missione nei “paesi cristiani” (in cui basta prendersi cura della fede dei cristiani) e uno per la sua missione nei paesi non cristiani (la missione ad gentes). Questa duplice forma della Chiesa la ritroviamo ancora in Giovanni Paolo II che in Redemptoris missio (1990) parla di una “nuova evangelizzazione” per indicare la forma di evangelizzazione intermedia tra l’ad gentes e la cura animarum, destinata a coloro che hanno abbandonato la pratica della fede e devono essere nuovamente evangelizzati.
Una tale distinzione non funziona più e per questo Papa Francesco usa molto raramente il termine “nuova evangelizzazione”, perché chiama tutta la Chiesa semplicemente all’evangelizzazione. E fa dell’evangelizzazione, tout court, il criterio della presenza e della missione della Chiesa oggi insieme con un secondo criterio, la sinodalità. Sono due realtà che troviamo nell’ecclesiologia del Vaticano II che è tempo siano finalmente utilizzate nella pienezza del loro significato.
Questo è quello che don Severino Dianich ha trattato con la sua consueta chiarezza in uno “Studio del mese” della rivista Il Regno attualità dello scorso luglio. Il tema ci sembra molto attuale e urgente e per renderlo accessibile al nostro pubblico ed evitare che cada nel dimenticatoio, lo riassumiamo, invitando i lettori interessati a leggerselo con calma (Il Regno Attualità, 14/2017 pp. 435-443).
Risposta a un vistoso
segno dei tempi
Tra i segni dei tempi, cui la Chiesa deve sempre porre attenzione, ce n’è uno oggi particolarmente vistoso ed è “l’impressionante rimescolarsi demografico del mondo attuale” che produce nuove aggregazioni sociali in cui si intrecciano, nella vita quotidiana, popoli, religioni, lingue, culture diverse. Accanto ad esso c’è la “crescita progressiva di un costume che si sta sciogliendo vistosamente dai suoi tradizionali legami con l’ethos cristiano”, insieme con la contestuale “diminuzione progressiva, soprattutto nelle nuove generazioni, della fede in Gesù Cristo e della stessa credenza in Dio” (p. 4) . Questo duplice fenomeno non può non interessare la Chiesa la quale per stare in questo mondo e continuare la sua missione deve essere una “chiesa in uscita”, consapevole di essere mandata nel mondo come lo è stata all’inizio della sua esistenza. Per questo Francesco le chiede una profonda “conversione pastorale e missionaria” (Evangelii Gaudium [EG] 25) che la costituisca “in tutte le regioni della terra in uno stato permanente di missione” (EG 25), segnato dal ritorno al Vangelo, sine glossa e riprendendo quell’ “apostolica vivendi forma” cui la Chiesa ha sempre guardato con nostalgia.
Papa Francesco è convinto che l’evangelizzazione deve essere il criterio fondamentale da utilizzare per perseguire la nuova forma ecclesiae che la Chiesa deve assumere nel mondo d’oggi. Questo è l’obiettivo della riforma strutturale da lui intrapresa (cf. EG 27), per superare la duplice forma di Chiesa, una per i paesi cristiani e l’altra per i paesi non cristiani, che ormai “sta perdendo senso”, in un mondo ormai globalizzato, multiculturale e multireligioso come il nostro. Il passaggio alla nuova forma è ancora in una fase di transizione perché le strutture formative dei futuri pastori restano ancora legate all’antica duplice forma della chiesa con evidenti sfasature. Da questa situazione, scrive Dianich, “deriva una diffusa scarsa sensibilità dei preti diocesani nei confronti di coloro che non partecipano alla vita della Chiesa e di coloro che non si professano cristiani cattolici, quando non addirittura una scarsa idoneità ad aprire in maniera conveniente il discorso della fede con i non credenti” (p. 437). Per superare questa prima aporia, ”la prima ri-forma che si impone alla Chiesa sembra essere proprio quella di un deciso superamento nella mentalità del popolo di Dio dell’immagine di una Chiesa che possa dedicarsi ai suoi fedeli, senza mettere in primo piano l’attenzione ai cattolici marginali, ai battezzati che hanno abbandonato la fede, così come agli uomini religiosi di altre religioni e ai non credenti” (ib.). In una Chiesa che non conta più sul regime di cristianità, è necessario riprendere la prima evangelizzazione.
Il cammino
conciliare
Davanti al problema della disaffezione della fede e dell’ateismo contemporaneo, il Concilio e la riflessione teologica hanno compreso che l’evangelizzazione non poteva essere riservata alla missione ad gentes. Proprio il decreto Ad Gentes afferma che “l’attività missionaria scaturisce direttamente dalla natura stessa della Chiesa” e riguarda quindi tutta la chiesa, per cui le differenze di metodo missionario, che pur vanno tenute presenti, “non nascono dalla natura intrinseca della missione, ma solo dalle circostanze in cui la missione stessa si esplica” (AG 6). Il Vaticano II avviava così un movimento che, in seguito e negli anni recenti soprattutto, ha dovuto accelerare il passo per il sopravvenuto fenomeno dei movimenti migratori, verificatosi in questi ultimi decenni, per cui dovunque sta crescendo e affermandosi una società pluralista dal punto di vista etnico, culturale e religioso. Questo fenomeno fa dire a Dianich che “sarebbe imperdonabilmente ingenuo pensare che in un cambiamento così profondo del panorama umano, la Chiesa possa continuare a operare secondo i parametri abituali, senza sentire il bisogno di dare una nuova forma storica al perenne mistero di grazia che la costituisce e alla missione per la quale il Signore l’ha voluta” (p. 438). Malgrado questa chiara evoluzione sul campo fosse già in atto nel 1983, il Codice di diritto canonico non l’ha assunta e legifera ancora per una Chiesa considerata come un’istituzione unitaria, dimenticando che essa esiste per un mondo in movimento e una Chiesa che per sua natura è “Chiesa in uscita” e dedica all’evangelizzazione ad gentes solo undici canoni.
Risvegliare
la fede oggi
L’evangelizzazione ossia “l’atto del comunicare agli uomini la notizia su Gesù, rendendo gli altri partecipi della propria esperienza di fede, in tutte le sue componenti da quella confessante a quella operativa, è l’atto che prolunga nel tempo la stessa esistenza della Chiesa” (p. 439). Senza l’evangelizzazione, senza la comunicazione della fede da un soggetto a un altro, che si riproduce di tempo in tempo, la Chiesa nell’arco di tre/quattro generazioni cesserebbe di esistere. È quindi importante riflettere su chi incombe questo compito di evangelizzare.
Dopo il Concilio, non ci può essere dubbio che il soggetto dell’evangelizzazione è il popolo di Dio e non più i soli ministri della Chiesa o i religiosi. Lo dice chiaramente Lumen gentium 9 : “populus messianicus … instrumentum redemptionis” e lo ripete il can. 781 secondo il quale l’evangelizzazione è il “fundamentale officium populi Dei”. Ma siccome il popolo cristiano è composto in stragrande maggioranza da fedeli, è normale che la missione ecclesiale sia affidata più che ai ministri ordinati o ai religiosi/e, ai laici i quali, secondo AG 21 lo fanno “con la vita e con la parola nella famiglia, nel gruppo sociale cui appartengono e nell’ambito della professione che esercitano”, come in EG 127-128 afferma anche papa Francesco. In realtà “moltissimi uomini non possono né ascoltare il Vangelo né conoscere Cristo se non per mezzo di laici che siano loro vicini” (AG 21). A partire da quest’affermazione conciliare, troppo spesso disattesa, don Dianich conclude: “Oggi si richiede che i pastori formino i fedeli all’assunzione in proprio di questa responsabilità e che i fedeli crescano nella coscienza della loro missione e la mettano in pratica” non perché un’odierna, contingente emergenza lo imporrebbe, a causa della diminuzione del numero dei presbiteri e dei religiosi, ma perché lo esige la natura e la forma della Chiesa, frutto del “discernimento che in questo nostro tempo la Chiesa è stata chiamata a fare per recuperare tutta la ricchezza della forma Ecclesiae originaria” (p. 439).
I fedeli e il carisma
per l’evangelizzazione
Per Ad gentes 4 lo Spirito Santo “unifica la Chiesa tutta intera nella comunione e nel ministero e la fornisce dei diversi doni gerarchici e carismatici [infondendo] nel cuore dei fedeli quello spirito missionario da cui era stato spinto Gesù stesso”. Per comprendere, quindi, la natura e la qualità dell’impegno dei laici nel mondo, bisognerà ricordare costantemente che il dovere di partecipare all’evangelizzazione è accompagnato e reso possibile da un carisma fondamentale, che sta alla base di tutti gli altri. È un carisma legato alla fede in Cristo, indipendente dal riconoscimento della gerarchia e che il Papa Francesco, nel discorso del 17 ottobre 2015 per il 50° del Sinodo dei vescovi, ha legato al sensus fidei all’evangelizzazione: “Nell'esortazione apostolica Evangelii gaudium ho sottolineato come «il Popolo di Dio è santo in ragione di questa unzione che lo rende infallibile “in credendo”», aggiungendo che «ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione” (EG 119-120). Già San Tommaso d’Aquino ritiene che ogni cristiano rende servizio ad un altro “in base alla grazia che gli è stata data” e questo non solo nell’ambito delle “res divinae”, ma in ogni situazione umana in cui “può fare qualcosa per gli altri” (STh 1a-2ae q. 68 4c). Quanto più quando un fedele comunica agli altri la sua fede “con la vita e con la parola, nella famiglia, nel gruppo sociale cui appartengono e nell’ambito della professione che esercitano» (AG 21)!
La sinodalità
necessaria
Se il popolo di Dio è il soggetto collettivo responsabile dell’evangelizzazione, è ovvio pensare che al popolo di Dio nel suo insieme spetti proprio il diritto/dovere di discernere la forma che la Chiesa deve assumere per essere all’altezza di quel fondamentale compito che è l’evangelizzazione. Per questo motivo papa Francesco, nello stesso discorso (17.10.2015), afferma che nella Chiesa si deve prestare ascolto al sensus fidei del popolo credente e superare finalmente una separazione troppo rigida tra Ecclesia docens ed Ecclesia discens. Ne ricava anzi la convinzione che «proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio».
Finora la normativa canonica attribuisce esclusivamente al vescovo e al parroco rispettivamente il diritto e il dovere di ogni decisione sulla vita della comunità diocesana e parrocchiale con la possibilità, se lo crede, di consultare il consiglio pastorale o parrocchiale. Questo è chiaramente insufficiente perché i diversi carismi che lo Spirito dà ai fedeli possano convergere nel tracciare il cammino della Chiesa.
Così succede che oggi i pastori della Chiesa debbano assumersi la responsabilità di decidere anche su argomenti per i quali il sacramento dell’ordine ricevuto non li ha affatto dotati del necessario carisma con la conseguenza che a volte le loro prese di posizione risultano «estranee alla società in cui vivono», invece di essere capaci di «permearla e trasformarla» (AG 21; cf. GS 35).
Evangelizzazione
e forma della Chiesa
Se l’evangelizzazione è il criterio fondamentale per discernere la forma che di tempo in tempo la Chiesa deve assumere nel vivere la sua missione nel mondo, tutte le diverse molteplici componenti della sua vita hanno bisogno di essere sottoposte al giudizio sul contributo che sono in grado di dare o sull’ostacolo che possono essere alla sua missione, affinché nell’azione della Chiesa sia sempre evidente che essa è determinata solo dal Vangelo di Gesù e dal desiderio di donarne al mondo la ricchezza.
Per individuare il giusto atteggiamento che la Chiesa deve assumere nei confronti dei poteri civili, per esempio, essa gode dell’insegnamento di Gesù, riassumibile nel celebre suo detto: «Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio», che è una sorta di radicale desacralizzazione del potere statale. Oggi dopo aver perduto quel potere temporale che ha esercitato in una parte del mondo, per un millennio, la Chiesa ora si ritrova di nuovo del tutto inerme di fronte ai grandi poteri mondani. Alla fine del Concilio i padri conciliari nel messaggio finale ai governanti hanno rivendicato solo «la libertà di credere e di predicare la fede, la libertà di amare Dio e di servirlo, la libertà di vivere e di portare agli uomini il suo messaggio di vita».
Se le esigenze dell’evangelizzazione sono il criterio fondamentale del discernimento della Chiesa sulla giusta forma con cui porsi nel mondo, è comprensibile che Francesco auspichi che la Chiesa non sia più “preoccupata di essere il centro” e la metta in guardia dalla tentazione di “non essere umile, disinteressata e beata”: “Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative” (Discorso al Convegno ecclesiale della Chiesa italiana, Firenze 2015).
L’atteggiamento umile e disinteressato nei confronti della società, oltre che per obbedienza al Vangelo, si impone oggi alla Chiesa perché il mondo contemporaneo ha bisogno di constatare che l’azione d’evangelizzazione della Chiesa non è opera di proselitismo che tende ad aggregare intorno a sé molti per raggiungere una presenza più imponente nella società. La chiesa non comunica il Vangelo per la propria grandezza, ma solo per il bene degli uomini: “la Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione” (EG 14).
Nuove relazioni
e iniziative di evangelizzazione
Il problema della comunicazione della fede ai non credenti oggi non riguarda più solo uomini e popoli non ancora raggiunti dalla predicazione cristiana, perché anche dentro la comunità cristiana, nella quale nessun battezzato può essere ritenuto estraneo finché non lo voglia egli stesso, ci sono persone incerte nella loro adesione alla fede e altre che di fatto hanno abbandonato ogni riferimento alla fede e alla Chiesa. Finora l’atteggiamento tradizionale della Chiesa, che ancora persiste in molti cristiani, è semplicemente quello della condanna e, in qualche caso, anche la scomunica che nelle intenzioni è pensata come una «poena medicinalis». Essa dovrebbe essere destinata alla conversione di chi ha sbagliato, ma di fatto non riesce a portarlo a ritornare alla fede.
Non dovrebbe invece la Chiesa chiedersi quale risonanza possa avere in questi fedeli sentirsi posti sotto giudizio, invece d’essere accompagnati nelle loro inquietudini dall’amore della comunità cristiana. Allo stesso tempo il credente, per la giusta stima che ha anche per il non credente, non dovrebbe sentire il bisogno di far sentire alla persona con cui egli si rapporta il desiderio di godere delle ricchezze della fede e della partecipazione alla vita della Chiesa? Riproporre la fede e la vita ecclesiale a chi ne è sempre stato estraneo, o se ne è emarginato, resta un serio compito di ciascuno e di tutti i fedeli.
Per questa stessa finalità la Chiesa nelle celebrazioni liturgiche dovrebbe mostrarsi accogliente verso tutti e saper dire parole di rispetto e di proposta esplicita della fede ai molti che, in particolari celebrazioni come matrimoni e funerali, si rendono presenti, non per una loro partecipazione personale alla fede che vi si celebra, ma per la relazione che li lega agli sposi o al defunto e alla loro famiglia.
La buona tradizione pastorale delle parrocchie, inoltre, ben conosce infinite iniziative di carattere culturale, sociale e ricreativo, capaci di creare grandi spazi di fraternità che, se offerti non solo ai partecipanti abituali alla vita parrocchiale, ma a tutti, con una particolare attenzione alle persone di altra religione o non credenti, possono essere luoghi di comunicazione ampia di molti aspetti della vita con i quali s’intreccia l’esperienza della fede offerta anche a coloro che non la condividono.
La Chiesa deve superare una lunga tradizione di discriminazione e sostituirla con una prassi di fraternità e accoglienza. Questo rivelerà l’autentico volto della Chiesa, trasparenza del mistero della salvezza portato da Gesù Cristo al mondo.
Chiesa
povera
Se la Chiesa oggi s’interroga sulla sua missione nel mondo d’oggi e sulla forma da assumere per esserne all’altezza, non potrà non ripensare il problema della povertà evangelica, caratteristica eminente della «apostolica vivendi forma», come condizione fondamentale dell’efficacia della sua missione.
Periodicamente questo bisogno di purificazione e di conversione alla povertà si è sentito nella Chiesa e oggi papa Francesco lo fa suo con accenti particolarmente accorati. “Desidero una Chiesa povera per i poveri” (EG 198). Questo bisogno di pulizia avevano sentito cinquecento Padri conciliari del Vaticano II che scrivevano a Paolo VI, deplorando che nel vigente stile di vita della Chiesa non brillasse più l’ideale della povertà evangelica: «Il rovesciamento ormai s’impone (…) per la stessa possibilità di sopravvivenza storica dello spirito cristiano (…) È l’ateismo contemporaneo, in ultima istanza, che pone ormai in termini categorici per il cristianesimo e per la Chiesa la necessità di vivere oggi sino in fondo il mistero della povertà evangelica» (G. Lercaro, Per la forza dello Spirito: discorsi conciliari, pp157-170).
San Paolo attribuisce la straordinaria efficacia della sua opera di evangelizzazione non certamente alla ricchezza di mezzi a sua disposizione, né al prestigio che egli potesse avere nella società, ma alla povertà e debolezza della sua persona e della sua opera: «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2Co 12,10), perché «quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti» (1Co 1,27).
È solo da questa visione chiara e netta del giudizio di Dio sulle cose del mondo che la Chiesa può ricavare i criteri di un buon discernimento sulla sua forma, nell’aspirazione a potersi presentare sempre al mondo non oscurando, ma facendo brillare la bellezza del messaggio evangelico.
Gabriele Ferrari