L’esperienza del limite: la morte nelle religioni

Tutti gli uomini si devono prendere coscienza che prima o poi ci sarà un momento che concluderà la loro vita. si tratta di una realtà che non è possibile eludere e davanti al quale l’uomo diventa veramente se stesso: è performativa della vita. Tutte le religioni nutrono una qualche attesa sulla vita dopo la morte. Ce ne occuperemo in queste pagine.

LA CONTRADDIZIONE È TROPPO GROSSA

Se noi potessimo mai non essere, già adesso non saremmo. La prova più certa della nostra immortalità è il fatto che noi ora siamo. Perché ciò dimostra che su di noi il tempo non può nulla: in quanto è già trascorso un tempo infinito. È del tutto impensabile che qualcosa che è esistito una volta, per un momento, con tutta la forza della realtà, dopo un tempo infinito possa non esistere: la contraddizione è troppo grossa. Su questo si fondano la dottrina cristiana del ritorno di tutte le cose, quella induista della creazione del mondo che si ripete continuamente a opera di Brahma, e dogmi analoghi di Platone e altri filosofi.
(Arthur Schopenhauer. da Der Handschriftliche Nachlass, vol. III, Manoscritti 1818-1830, p. 643, DTV, München-Zürich 1985)

LA «PESATURA DEL CUORE».

Secondo il Libro dei morti, il defunto viene portato da Anubi al tribunale di Osiride, alla presenza di 42 giudici, uno per ogni provincia egiziana per la «pesatura del cuore». Il suo cuore viene infatti deposto su un piatto della bilancia, mentre sull’altro viene posta una piuma, personificazione di Maat, dea della giustizia. Il defunto deve confessare le sue azioni. Se il cuore, dopo questo atto, risulta più pesante della piuma, la mostruosa dea Ammit lo divorerà; in caso contrario l’anima avrà accesso all’aldilà. In preparazione a questo giudizio dopo la morte, il defunto era accompagnato da un amuleto, uno scarabeo «del cuore», su cui era scritta la formula di protezione che riportiamo. O cuore di mia madre, o cuore della mia essenza, non testimoniare contro di me, non rinnegarmi al tribunale. Non contraddirmi davanti ai giudici. Non far inclinare l’asse dalla mia parte in presenza del guardiano della bilancia. Tu sei il mio Ka, dimori nel mio corpo, sei congiunto ad esso e rendi forti le mie membra. Avvicinati al paradiso, conduci là me e te stesso. Non rendere disgustoso il mio nome al cospetto dei Signori Divini. Sii equo per noi, fatti ascoltare quando verranno soppesate le parole. Non pronunciare menzogne contro di me davanti al grande Dio. Di certo sarai innalzato alla vita. (Luciano Marisaldi, Paesaggi della storia, Dalla preistoria a Roma repubblicana, Zanichelli 2011, Volume 1)

A confronto con la filosofia

Che cosa so di Dio e del fine della vita? So che questo mondo è. Che io sto in esso come l'occhio nel suo campo visivo. Che qualcosa in esso è problematico, ciò che noi chiamiamo il suo senso. Che questo senso non risiede in esso, ma al di fuori di esso. Che la vita è il mondo. Che la mia volontà compenetra il mondo. Che la mia volontà è buona o cattiva. Che dunque bene e male sono in qualche modo congiunti al senso del mondo. Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio. E collegare a ciò la similitudine di Dio come padre. La preghiera è il pensiero sul senso del mondo. Non posso volgere gli avvenimenti del mondo secondo la mia volontà; piuttosto sono completamente impotente. Solo così posso rendermi indipendente dal mondo - e in un certo senso quindi dominarlo - rinunciando a un influsso sugli avvenimenti. (Wittgenstein, Q 11.6.16)

Un immaginario molto diffuso: l’aldilà

Quasi tutte le culture religiose parlano a diverso titolo e in diverso modo dell’esistenza di una realtà completamente diversa da quella in cui l’uomo vive ogni giorno detto aldilà. Se analizziamo le descrizioni di questa realtà ci rendiamo conto che la fantasia sfrenata dell’uomo che costruisce mondi immaginari, spinta dalla necessità di rappresentarsi ciò che di fatto è inconoscibile. Vi è tuttavia qualcosa che accomuna queste descrizioni. Infatti a voler guardare bene, fatte salve le differenze culturali a cui le narrazioni sono sottoposte, esse non corrispondono del tutto all’immaginario di ciascun membro del gruppo, ma hanno una loro consistenza condivisa a livello comunitario.

Parlare della morte

È parere di alcuni studiosi che l’uomo primitivo ritenesse la morte non l’ultimo atto della vita, la sua conseguenza naturale, ma il risultato di un evento accidentale e violento. Allora se non è il compimento di una legge naturale la morte non può essere qualcosa che esiste da sempre, ma è la conseguenza di un’azione, di un comportamento errato dell’uomo che ha rotto l’equilibrio originario. Secondo Spencer il culto degli antenati dovrebbe essere considerato addirittura come la prima forma di religione. In realtà dalla Cina a Roma abbiamo molte testimonianze del culto dei morti, un culto che inizia molto presto e che ha come base la necessità di creare buoni rapporti e di riuscire a comunicare con gli individui che hanno abbandonato il gruppo prima degli altri. Proprio questa comunicazione rende gestibile e tollerabile la paura che i morti possano ritornare e insidiare l’esistenza di chi è rimasto in vita. Per questo motivo in onore dei defunti si sacrifica e si celebrano feste, generalmente posizionate nei momenti in cui il raccolto è al sicuro, è iniziata la stagione invernale e si comincia l’attesa per l’anno nuovo. Queste celebrazioni sono anche riti del limine. Tra esse possiamo ricordare la moderna festa di Halloween: un tempo naturale è trascorso e quello nuovo non è ancora nato.

Rappresentarsi la morte

Uno dei modi escogitati dall’uomo per parlare della morte è la metafora del nuovo parto. Se l’uomo con la nascita esce dall’indefinito e dal buio, con la morte, rompe il diaframma che lo separa da una realtà diversa e viene immerso nel mistero dell’invisibile. La morte può anche assumere la connotazione di ringiovanimento, come avviene nelle Isole Trobriand (cf. Bronislaw Malinowski, La vita sessuale dei selvaggi della Melanesia Nord-occidentale). La persona diventata orami anziana non ha più né vigore né forza ed è destinata alla morte che la riporterà ad essere uno spirito embrionale. Dunque il “baloma”, lo spirito degli antenati, ritornato al suo luogo di origine, e nuovamente entrato in un corpo femminile è sottoposto ad un’esistenza ciclica di nascita e di morte. A questa visione ciclica della realtà si contrappone l’interpretazione della vita come unico viaggio ed esperienza: ci sarebbe insomma un punto di inizio, una partenza seguita da alcune esperienze, diverse per ciascuno e da una fine irreversibile. Usciti da questa realtà i defunti non migrano verso una realtà che li riporta al punto di partenza ma, oltrepassato il traguardo finale entrano in una situazione definitiva.

Aldiquà e aldilà

I due mondi - per intenderci: l’aldiquà, quello in cui siamo inseriti noi in questo momento, e l’aldilà, ossia quello dove vivono i defunti - sono due realtà totalmente diverse. Tuttavia esse posseggono nello stesso momento una vicinanza quasi contigua, in modo tale che i defunti possano transitare da una realtà all’altra, ed essere allo stesso tempo distanti. Nella descrizione del mondo ultraterreno questo apparirà simile al nostro, ma totalmente diverso e spaesante: visibile e invisibile sono qualità possedute nello stesso momento. I defunti verranno così descritti come prolungamenti di ciò che sono stati in vita, ma anche esseri disincarnati e trasfigurati.

Perdono delle offese e riconciliazione

Costatato che difficilmente nella nostra realtà i torti subiti riusciranno ad ottenere riparazione, il regno dell’aldilà viene descritto come il luogo in cui i conflitti troveranno soluzione e le tensioni e le disarmonie sperimentate in vita godranno dell’opportuna soluzione. Perdono delle offese e riconciliazione universale avverranno sotto il controllo dell’infinita misericordia divina.

Un’esperienza fondamentale come punto di partenza

Ma da dove vengono questi immaginari dell’aldilà? Tutti derivano da un’esperienza fondamentale descritta da racconti etnografici che narrano le complesse e variegate metodologie escogitate dall’uomo per cancellare almeno momentaneamente la propria individualità attraverso l’uso di danza, droga, alcool, isolamento, dolore o piacere. Ma al fondo di questa esperienza ove si tenta di cancellare ciò che ci caratterizza come persone, l’uomo fa invece esperienza di una parte di sé che è sottratto alla morte. Tuttavia anche se quest’esperienza può essere posta alla base di tutte le concezioni dell’aldilà, essa non costituisce affatto l’esperienza dell’aldilà. Si tratta inoltre di una conoscenza da cui rimane esclusa la grande massa delle persone e perciò appannaggio soltanto di pochi fortunati. Si tratta di esperienze passeggere a cui non è più possibile accedere: rientrato nella realtà di tutti i giorni chi dice di aver visto dovrà sottoporre la sua esperienza ad opportuni adattamenti linguistici non essendo in possesso di termini appropriati per esprimere ciò che ha sperimentato in modo completo. L’esperienza sarà interpretata come favore della divinità che ha concesso alla persona l’occasione di vedere ciò che potrà possedere in modo definitivo solo dopo la morte. Entrare in possesso di questa realtà non sarà tuttavia qualcosa di automatico o di gratuito e l’esito non è assolutamente scontato.

Come posso essere salvo?

Il tema centrale di ogni riflessione religiosa è quello della salvezza e cioè il modo in cui un uomo possa, attraverso i riti, assicurarsi la garanzia della riuscita della propria vicenda umana. Salvezza per l’uomo significa prima di tutto garantire la propria sopravvivenza fisica attraverso i riti di fecondità della terra, ma anche del gruppo attraverso i riti di iniziazione. In larga parte il concetto di salvezza riguarda il destino dell’individuo aldilà della morte. Se i riti di fecondità della terra assicurano il normale ritorno del ciclo produttivo, non sempre è chiaro in quale modo al singolo è assicurata la sopravvivenza dopo la morte. In alcuni casi come ad esempio nelle religioni babilonese, greca e romana, l’attesa dell’aldilà si fa alquanto malinconica. Il regno dei morti infatti non appare una realtà desiderabile, ma un luogo cupo ove lo spirito del defunto conduce una vita larvale, quasi di ombra.

Tanti tipi di salvezza

In altri casi come in India l’individuo affronta una dopo l’altra una serie di rinascite positive e negative. In questo modo l’anima dell’individuo di origine divina è come incatenata ed è costretta ad essere nuovamente prigioniera di un corpo mortale, quasi incapace di raggiungere l’Atman, primo ed universale principio dell’essere. A questa credenza reagisce il Buddhismo che combatte questo doloroso ciclo di successive rinascite ponendo in evidenza lo stretto legame esistente tra desiderio e dolore e la necessità della liberazione come via per ottenere il definitivo scioglimento dell’anima dal corpo, dell’esistenza vissuta come limite ed esperienza dolorosa.

La giustizia divina

Nei testi sacri spesso si trovano leggi o almeno allusioni all’ideale morale previsto dalle diverse religioni. Ciò accade perché ogni religione ha un’idea precisa di ciò che è bene e di ciò che è male. Il rispetto di queste regole è associato al culto. In molti casi chi non ha concretizzato nella vita questi precetti non può partecipare ai riti e ai culti. A volte la comprensione della violazione della legge è considerata unicamente una mancanza pratica, ma può anche essere spiegata come una violazione dell’ordine delle cose e comportamento che disturba la divinità.

Il comportamento umano

Non tutte le religioni trasmettono il medesimo codice morale ai propri fedeli. Tuttavia l’omicidio, il furto, i rapporti sessuali disordinati, sono generalmente condannati. Così pure le religioni insistono sul valore della verità. Inoltre la parola non può essere usata contro la divinità con affermazioni blasfeme. La bestemmia è un’azione gravemente condannata dalle religioni che attribuiscono un particolare onore al nome di Dio o lo ritengono sacro. Quasi tutte le religioni spingono i loro fedeli ad avere nei confronti degli altri rispetto, attenzione, condivisione e qualche volta insegnano (come avviene nel Cristianesimo) anche l’amore per il prossimo sino al dono della propria vita. La morale nelle religioni ha il compito fondamentale di conservare l’ordine del mondo, i rapporti sociali, le relazioni tra creature, ma soprattutto instaurare una relazione corretta tra Dio e uomo. Nel momento in cui l’uomo religioso si attiene alle regole morali e le rispetta non crea soltanto un legame con gli individui del suo gruppo, ma riconosce anche che la divinità che gli ha dato quella legge coincide con il creatore e che lui è una creatura che da lui dipende. In quasi tutte le religioni Dio è giudice del comportamento umano.

Le risposte dell’Induismo

Per la cultura indu non gli uomini non sono affatto uguali: l’essere inseriti in un gruppo più o meno evoluto dipende non dal caso ma dal momento della nascita. Così la società è suddivisa in gruppi il cui valore progressivamente decade verso il basso. Passare da una casta all’altra dipende dalla prossima reincarnazione. All’uomo è anche data la possibilità di sfruttare le successive età della vita. In questo modo la realtà diventa un movimento evolutivo che può portare l’uomo verso la liberazione o verso un ulteriore abbrutimento. Te ne occuperai in queste pagine.

PER GLI INDU LA REINCARNAZIONE È MATERIA DI ESPERIENZA

Nell'ultimo paragrafo [della Lettera a un indù] voi sembrate voler dissuadere il lettore dal credere nella reincarnazione. Io non so (se non è irrispettoso da parte mia dire questo) se voi abbiate studiato in particolare tale questione. La reincarnazione o trasmigrazione è una credenza che è molto cara a milioni di persone in India, e anche in Cina. Per molti, si potrebbe quasi dire, è materia di esperienza e non più soltanto di adesione accademica. La reincarnazione dà una spiegazione ragionevole ai molti misteri della vita. Per alcuni resistenti passivi che sono passati per le prigioni del Transvaal, è stata la maggiore consolazione. Il mio scopo nello scrivervi questo non è di convincervi della verità di questa dottrina, ma di chiedervi per favore di togliere la parola «reincarnazione» dalle cose da cui volete dissuadere il vostro lettore. (Mahatma Gandhi, Lettera a Tolstoj,1° ottobre 1909, in Pier Cesare Bori e Gianni Sofri, Gandhi e Tolstoj: un carteggio e dintorni, Il mulino, Bologna 1985)

LE PERSONE TENEBROSE DIVENGONO SEMPRE ANIMALI

Ora vi dirò, in breve e per ordine quali trasmigrazioni si ottengono in tutto questo (universo) con ciascuna di queste qualità: le persone lucide divengono dèi, le persone energiche divengono esseri umani, le persone tenebrose divengono sempre animali [...] ma bisogna sapere che questo triplice livello di esistenza, che dipende dalle qualità, è esso stesso triplice: infimo, medio e sommo, a seconda delle azioni e del sapere specifico (di chi agisce). Gli esseri statici, i vermi, gli insetti, i pesci, i serpenti, le tartarughe, il bestiame e gli animali selvatici sono l'ultimo livello di esistenza, cui conduce la tenebra. Gli elefanti, i cavalli, i servi, i vili barbari, i leoni, le tigri, i cinghiali sono il livello medio di esistenza cui conduce la tenebra. Gli attori itineranti, gli uccelli, gli imbroglioni, gli orchi e gli spettri sono il sommo livello di esistenza cui conduce la tenebra. I pugili, i lottatori, i danzatori, i trafficanti d'armi, i giocatori di azzardo e gli ubriaconi sono l'infimo livello di esistenza cui conduce l'energia. I re, i sovrani, i sacerdoti personali dei re e coloro che amano le battaglie verbali sono il livello medio di esistenza cui conduce l'energia. I centauri, gli gnomi, i geni, servi degli dèi e le ninfe celesti sono il sommo livello di esistenza cui conduce l'energia. Gli asceti, i rinuncianti, i sacerdoti, le schiere degli dèi che volano sui carri celesti, le costellazioni e gli anti dèi sono il primo livello di esistenza cui conduce la lucidità. I sacrificanti, i sapienti, gli dèi, i Veda, i luminari celesti, gli anni, gli antenati, i Docili sono il secondo livello di esistenza cui conduce la lucidità. I saggi dicono che Brahmā, i creatori dell'universo, la religione, il grande e l'immanifesto sono il sommo livello cui conduce la lucidità.» (Manusmrti XII, 39-50, in Le Leggi di Manu, a cura di Wendey Doniger e con la collaborazione di Brian K. Smith, Adelphi, Milano 1996)

LA VERA NATURA DI CIÒ CHE ESISTE

Il problema filosofico fondamentale delle Upaniṣad, al quale tutti gli altri possono essere considerati subordinati, è quello della vera natura di ciò che esiste. I pensatori delle Upaniṣad considerano che dietro ogni manifestazione, di qualunque natura essa sia, si debba trovare un fondamento autoesistente e incondizionato, un principio che viene chiamato appunto brahman. (Gianluca Magi, Hindūismo, in "Enciclopedia filosofica" vol. 6, Bompiani, Milano 2006).

Di quale colore sei?

La parola varna, ossia colore, è contenuta nel termine varṇāśramadharma usato per indicare il sistema delle caste, ovvero il colore in cui un Hindu nasce. Il sistema castale, così come indicato dalle nostre fonti, ha origini molto antiche. In base a questa suddivisone quattro sono le posizioni religiose previste all’interno della società: • I brāhmaṇa con funzioni sacerdotali. Il colore è il bianco, simbolo di purezza. • Gli Ksatriya che hanno la responsabilità di difendere il Paese e sono guerrieri. Il colore è il rosso simbolo di energia e di passione, ma anche del sangue versato. • I Vaisya che si dedicano alle attività agricole. Il colore è il giallo, simbolo della terra. • I Sudra gruppo composto dalle popolazione che gli indoari avevano soggiogato e perciò considerati servi. Il colore è il nero, simbolo dell’oscurità. L’appartenenza a un colore è strettamente legato alla discendenza. Perciò si è brahmani perché si è figli di brahmani. I primi tre varna sono nobili e prevedono un’iniziazione. Perciò gli appartenenti a questi varna si dicono “rinati” perché nell’iniziazione nascono una seconda volta. Solo chi nasce in queste tre caste si può dedicare alla pronuncia e allo studio dei Veda e delle Sruti. Le donne e i sudra possono dedicarsi soltanto allo studio degli Itihasa e dei Purana. Questa suddivisione è spiegata attraverso la legge del Karma: si nasce brahmano perché nel corso delle reincarnazioni si sono accumulati meriti, mentre si nasce sudra perché si sono accumulate numerose colpe da espiare.

Tremila sottocaste Nel corso dei secoli si sono formate tremila sottocaste generate dai matrimoni tra i quattro varna. Anche se tutti i matrimoni dovrebbero avvenire all’interno del proprio gruppo castale, le unioni matrimoniali intercastali sono tollerate quando il marito appartiene ad una casta superiore. Oltre i sudra vi è il numeroso gruppo degli avarna, ossia di coloro che non sono inseriti in alcun gruppo: essi sono considerati intoccabili (niḥspṛśya). Sono in molti a credere che l’India abbia abolito il sistema castale: in realtà il sistema indiano si è limitato ad emanare leggi per contrastare la discriminazione dei dalit, ossia degli oppressi ed anche dei fuori casta. Tuttavia la segregazione castale è un sistema culturalmente accettato. Contrariamente a quanto si pensa, essere inseriti in una casta sin dalla nascita non equivale ad appartenere ad una struttura professionale (anche se facilmente chi appartiene ad una medesima casta avrà la stessa posizione sociale e si dedicherà alla medesima occupazione), ma ad occupare un posto preciso nella società e a svolgere un ruolo religioso specifico in un complesso sistema sociale.

Gli stadi della vita

Ogni maschio inserito in una delle tre prime caste (e solo quelle) può impegnarsi nell’Asrama, ossia il percorso evolutivo costituito da quattro stadi di vita. Possiamo schematicamente indicarli in questo modo: • Brahmacarya a cui si accede con un rito. Il periodo prevede che il giovane che vi entra si dedichi allo studio dei Veda seguito da un guru (maestro). Lo studente deve praticare una rigida castità. • Garhasthya. È l’epoca in cui si rientra in famiglia e ci si prepara al matrimonio. Il giovane uomo si dispone a vivere pienamente la vita come marito e padre, ma anche a compiere i riti del capofamiglia. • Vanaprastha. È l’epoca della vecchiaia, momento in cui l’anziano dovrebbe abbandonare il villaggio e ritirarsi nella foresta. La moglie può seguire il marito, ma può anche essere affidata ai figli. È un periodo di distacco in cui l’anziano vive in povertà e si dedica allo studio dei libri sacri. • Samnyasa. È il momento della rinuncia al mondo: l’Hindu diventa asceta errante e vive di sole elemosine. Prima di dedicarsi a questo distacco totale egli avrà donato tutti i suoi averi ai poveri e ai brahmani, si sarà rasato completamente e si sarà tagliato le unghie. Con sé avrà solo una ciotola per il cibo e un bastone. Questo in origine era l’ultimo stadio della vita. tuttavia a partire dal VII-VIII secolo alcuni devoti Hindu iniziarono ad abbracciare questo stato di vita subito dopo l’iniziazione al Brahmacarya. Camminare nella storia per raggiungere la realizzazione L’Induismo ritiene che l’uomo sia in cammino nella storia per raggiungere la piena realizzazione. Si tratta di una realtà che coincide con la purificazione da ogni tipo di male e da ogni sporcizia fisica. Una volta raggiunta questa perfezione interiore ed esteriore l’uomo ha la possibilità di riunirsi allo spirito divino e vitale che anima l’universo. Tuttavia spesso accade che l’uomo non riesca in una sola esistenza a compiere questo difficile cammino. L’umanità risulta così immersa in un grande ciclo di vita, morte e reincarnazione o vita successiva in cui avrà la possibilità di completare il proprio stato interiore. Se l’individuo vive e si comporta onestamente, si potrà reincarnare in un livello superiore, più vicino alla piena purificazione; se al contrario si comporterà male, si reincarnerà in un livello inferiore, o addirittura in un animale, allontanandosi sempre di più dalla perfezione.

Nessun perché

Un genere di riflessione è sostanzialmente assente dall'intera esperienza vedica: è la domanda, in seguito così tormentosa, del perché. Il fatto di soffrire, la realtà dell’angoscia umana, viene accettato semplicemente, come un dato di fatto, come qualcosa con cui bisogna aver a che fare, sia riguadagnando la felicità e l'equilibrio perduti, sia trascendendo totalmente la dolorosa condizione umana. La speculazione vedica, tuttavia, non se ne chiede il perché. (Raymond Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, a cura di Milena Carrara Pavan, traduzioni di Alessandra Consolaro, Jolanda Guardi, Milena Carrara Pavan, BUR, Milano 2001)

Un’armoniosa realizzazione

Secondo la visione hinduista l'uomo deve cercare di realizzarsi armoniosamente avendo come fine il godimento della felicità. Tutte le azioni umane perciò dovrebbero tendere a migliorare le proprie condizioni di vita intesa in senso globale. Poiché nessun aspetto dell’esperienza umana deve essere trascurato, all’hindu vengono indicati tre obiettivi da raggiungere: dharma, artha e kama. Ad essi, è aggiunto il moksha. Artha e kama due obiettivi più legati alla realtà mondana e corporea, possono essere raggiunti solo se si vive pienamente il principio del dharma. Vivendo in armonia col dharma è infatti possibile finalizzare artha e kama al fine ultimo dell’Hinduismo ossia a moksha. Poiché il dharma rappresenta la norma universale del tutto è anche il principio che regola e governa l’ordine etico. In base a quest’ordine si può stabilire in quale modo i piaceri della vita debbano essere gustati e in quale considerazione si debbano tenere ricchezze e potere. Dunque il dharma non ha soltanto il compito di governare la sfera religiosa, ma estende la sua influenza anche sulla realizzazione materiale dell’uomo indicando i criteri che debbono essere usati per dedicarsi al godimento del mondo.

Benessere della vita e godimento dei piaceri

Artha indica il raggiungimento del benessere generale, e ad esso si perviene impiegando condizioni materiali e mezzi appropriati individuati dai consigli medici contenuti nei Veda al fine di ottenere e mantenere un buon stato di salute. Ma artha è anche il raggiungimento di una condizione sociale soddisfacente da cui non sono esclusi ricchezza e successo. Il benessere generale consente la realizzazione di Kama Il desiderio che sorregge qualsiasi comportamento, raffigura il piacere e la possibilità di giungere al suo godimento. Secondo l’Hinduismo infatti l'uomo che voglia svilupparsi in modo armonioso deve appagare anche i piaceri sensoriali, senza tuttavia distogliere la sua attenzione dalla loro essenza divina. Ma dharma, artha e kama, benché forti motivazioni all’agire dell’uomo, non hanno senso se non collegati alla liberazione definitiva, vale a dire a moksha.

Uno scopo evolutivo

L’Induismo insegna che la natura dell’uomo è divina e la sua essenza è spirito. Sapendo ciò l’uomo è chiamato ad investigare la realtà sapendo però che sarà possibile rintracciare le risposte che desidera ottenere soltanto aldilà della dimensione materiale. Non essendosi durante la vita vietato nessun piacere l’Hindu ha fatto esperienza che nulla lo può appagare per sempre: ogni piacere origina di fatto uno stato transitorio. Per questo motivo la realizzazione armoniosa prevede anche che l’uomo si sforzi di infrangere i legami stabiliti dal karma per tentare di sottrarsi all’infinito ciclo di rinascite. Se ha intenzione di conseguire questo traguardo l’Hindu dovrà dedicarsi alla liberazione per mezzo di un impegno costante che lo porterà a compiere i suoi doveri, perseguire i giusti obbiettivi e in questo modo conquistare meriti che lo avvicineranno progressivamente alla felicità. I quattro scopi della vita insegnano all’Hindu che l’esistenza umana ha un unico grande scopo evolutivo per portare l’uomo alla liberazione definitiva.

Il samsara per l’Induismo

Non conosciamo l’origine della dottrina del samsara che probabilmente nasce nel VI secolo e che compare nei testi più antichi delle Upanishad. La parola samsara indica una concezione ciclica dell’universo e in cui sono implicate tutte le anime. Secondo questa dottrina il mondo possiede quattro età: passando attraverso le quattro fasi il cosmo progressivamente si degrada. Giunto all’ultimo stadio, l’universo non può fare a meno di implodere. Si rende perciò necessaria una nuova rinascita e una nuova creazione. Ciò che viene vissuto dagli individui non si differenzia molto da ciò che è sperimentato dal mondo. Anche per gli essere individuali è prevista una ciclicità che obbedisce alla legge del Karma. La legge del Karma prevede che ogni individuo compia durante la vita, atti che portano frutti positivi o negativi e che sono il risultato di responsabilità personali. Le eventuali sanzioni per ciò che di male avrà compiuto l’uomo le dovrà scontare direttamente sulla terra. Dopo la morte infatti vi sarà una reincarnazione in un individuo più o meno evoluto (dio, uomo, animale, pianta) a seconda della bontà delle azioni compiute. Tuttavia l’anima individuale si troverà ancora una volta incatenata all’interno del ciclo delle rinascite.

La liberazione dal ciclo delle trasmigrazioni

Il ciclo delle rinascite non è comunque una prospettiva gradita agli Hindu mentre invece in Occidente spesso si presenta come una possibilità in più offerta dalla divinità. Le Upanishad offrono ai fedeli la possibilità di una via d’uscita, ma per poterla raggiungere è necessario appartenere alle prime tre caste, poiché i Sudra ne sono esclusi. L’iniziazione ricevuta dai membri dei primi tre varna ritualmente ha consentito loro di rinascere. Con questo rito essi hanno la possibilità di percorrere (come l’universo) le quattro tappe dell’esistenza di cui abbiamo parlato. Tuttavia la possibilità di seguire queste quattro tappe è sfruttata solo raramente. Per giungere alla completa liberazione occorre un lungo allenamento che può soltanto essere l’esito di una preparazione graduale, in cui l’uomo impara a controllare i propri desideri per sottrarsi alla fatalità della legge del Karma. Ma anche questa di per sé non può essere considerata la vera soluzione. La liberazione infatti dipende unicamente dalla conoscenza, mentre la catena delle reincarnazioni è determinata dall’ignoranza. Perciò è necessario l’insegnamento di un maestro, conoscere il Brahman ed essere consapevoli dell’identità esistente tra sé e l’Atman. Queste conoscenze devono servire all’individuo per comprendere che gli individui devono essere considerati una pura percezione frammentaria dello stesso Brahman. Tuttavia attraverso queste percezioni parziali si può giungere ad ottenere uno stato più elevato di coscienza dove sia possibile afferrare l’unità del Brahman. Si tratta di un’esperienza per raggiungere la quale normalmente è necessario compiere grandi sforzi di liberazione: il Brahman è qualcosa di essenzialmente misterioso e che rimane inconoscibile per i sudra e per i fuori casta.

Le risposte del Buddhismo

L’uomo di per sé non esiste, ma è solo illusione. Raggiunta questa consapevolezza chi si dedica alla meditazione buddhista può liberarsi dal ciclo delle rinascite e giungere finalmente a non soffrire più. Te ne occuperai in queste pagine.

NON COSTRUIRAI PIÙ QUESTA CASA

Per innumerevoli vite ho vagato
cercando invano il costruttore di questa casa.
Doloroso invero è continuare a rinascere.
Oh, costruttore! Ora ti ho trovato.
Non costruirai più questa casa. Tutte le tue assi sono rotte,
La trave di colmo è spezzata.
La mia mente ha raggiunto la libertà suprema
Estinto è ogni desiderio”. (Buddha)

QUAL È LA RAGIONE?

A Savatthi. Là il Benedetto del Cielo disse: "È a partire da un inconoscibile principio che viene la trasmigrazione. Il punto di principio non è evidente, sebbene degli esseri impediti dall'ignoranza ed incatenati per l'invidia insaziabile trasmigrano e continuano ad errare. Che ne pensate, monaci: Che cosa è più grande, le lacrime che avete versato mentre voi trasmigrate ed erravate in tutto questo lungo tempo - piangendo e lacrimosi di essere associati con ciò che è sgradevole, di essere separati da ciò che è piacevole - o l'acqua dei quattro grandi oceani?". "Così come noi comprendiamo il Dharma a noi insegnato dal Benedetto del Cielo, questo è il più grande: le lacrime che abbiamo versato mentre noi trasmigravamo ed erravamo in tutto questo lungo tempo - piangendo e lacrimosi di essere associati con ciò che è sgradevole, di essere separati da ciò che è piacevole - non l'acqua dei quattro grandi oceani." "Eccellente, monaci. Eccellente. È eccellente che comprendiate così il Dharma che insegno." "Questo è il più grande: le lacrime che avete versato mentre voi trasmigravate ed erravate in tutto questo lungo tempo - piangendo e lacrimosi di essere associati con ciò che è sgradevole, di essere separati da ciò che è piacevole - non l'acqua dei quattro grandi oceani." Voi avete da molto tempo, fatta l'esperienza della morte di una madre. Le lacrime che avete versato sulla morte di una madre mentre voi trasmigravate ed erravate in tutto questo lungo tempo - piangendo e lacrimosi di essere associati con ciò che è sgradevole, di essere separati da ciò che è piacevole - sono più grandi dell'acqua dei quattro grandi oceani. Voi avete da molto tempo, fatta l'esperienza della morte di un padre... della morte di un fratello... della morte di una sorella... della morte di un figlio... della morte di una ragazza... di una perdita rispetto ai genitori... di una perdita rispetto alla ricchezza... di una perdita rispetto alla malattia. Le lacrime che avete versato su una perdita rispetto alla malattia mentre voi trasmigravate ed erravate in tutto questo lungo tempo - piangendo e lacrimosi di essere associati con ciò che è sgradevole, di essere separati da ciò che è piacevole - sono più grandi dell'acqua dei quattro grandi oceani. "Qual è la ragione? È a partire da un inconoscibile principio che viene la trasmigrazione. Il punto di principio non è evidente, sebbene degli esseri impediti dall'ignoranza ed incatenati per l'invidia insaziabile trasmigrano e continuano ad errare. Voi avete molto tempo così fatta l'esperienza del dolore, fatta l'esperienza della sofferenza, fatta l'esperienza della perdita che riempie i cimiteri - abbastanza per disingannarvi da ogni cosa fabbricata, abbastanza per voi di non avere passioni, abbastanza per liberarvi." (Samyutta Nikaya. XV,3)

La risposta di Buddha

Siddharta Gautama, detto il Buddha (o l’Illuminato) considerò la vita un susseguirsi di esperienze per lo più negative: dolori, sofferenze, malattie e soprattutto la morte. Per non dover più fare esperienza di dolore o di imperfezione è indispensabile uscire dal ciclo delle reincarnazioni, e così giungere finalmente a non nascere più. Per realizzare ciò e raggiungere il Nirvana, l’annullamento totale di sé nello Spirito dell’Universo, l’uomo deve arrivare a sopprimere ogni forma di desiderio, causa prima di qualsiasi dolore e di qualsiasi sofferenza.

Il dolore universale per il Buddismo

Siddharta partiva nella sua argomentazione dalla costatazione che tutte le esperienze portano al dolore, alla sofferenza fisica e morale. Tuttavia la dukkha è qualcosa che va oltre e raggiunge la delusione vissuta da ogni uomo nel momento in cui fa esperienza dell’effimero: ogni esperienza di gioia non è che un istante che presto svanisce. Perciò Buddha ne ricavava che tutto era destinato a finire e ad essere distrutto: si tratta di una legge universale. Il dolore, la sofferenza sono sperimentati dall’uomo che ha la consapevolezza di non essere mai libero, ma sempre condizionato, legato, costretto. Quindi la Prima Nobile verità proclama l’impermanenza (aniccata) e l’essere condizionati.

La causa del dolore Il dolore è un sentimento che necessita di essere riconosciuto, ma perché ciò possa accadere è necessario ci sia una persona che dica di provare dolore. Tuttavia il Buddha era molto chiaro in proposito: la persona è una apparenza. Non solo è un’apparenza ma è un’illusione a cui tutti gli uomini sono tenacemente legati e perciò è una convinzione che rende impossibile raggiungere la salvezza.

L’Illuminazione

Far cessare il dolore è un’impresa possibile nel momento in cui l’uomo estingue il combustibile che tiene in vita la fiamma del desiderio. Per uscire dalla catena del samsara è necessario prendere coscienza che il mondo è impermanente e il Sé di ogni uomo non esiste. Se ciò è vero allora sono assurdi sia il desiderio sia qualsiasi azione. Si tratta di una realtà di totale distacco che tuttavia non può essere considerata una rinuncia perché in realtà non esiste nulla di ciò a cui all’uomo sembra dover rinunciare: tutto è solo illusione ed è precisamente nella consapevolezza di questa realtà illusoria che consiste l’Illuminazione. L’illuminato non è qualcuno che è stato tolto dalla realtà ed è perciò in grado di provare sensazioni. Tuttavia una volta compreso che non esiste l’individuo, si accetta anche che non c’è una persona che possa provare quelle stesse emozioni. Le emozioni pertanto non possono avere conseguenze e l’uomo ha la possibilità di rimanere quieto e sereno. Buddha affermava che è necessario imparare a condurre e a tenere sotto controllo le proprie emozioni come fossero cavalli ben condotti. Quest’autocontrollo conduce a una serenità invidiabile persino dagli dei. È possibile divenire in vita dei risvegliati come il Buddha, anche se a volte questo traguardo è raggiunto al termine di una lunga serie di reincarnazioni. Tuttavia la vera liberazione non si realizza che con la morte ove tutti gli elementi di cui è composto il corpo si dissociano.

Il nirvana

Il nirvana è ciò a cui conduce l’Illuminazione, il Risveglio. Nirvana significa estinzione totale dei desideri, sensazioni, pensieri, volontà, raggiungimento del completo distacco da tutti i fenomeni e uscita definitiva dal ciclo del divenire e del potere che il dolore esercita sul mondo, dal circolo vizioso del desiderio che porta al voler rinascere nuovamente, ma anche dalla paura per l’estinguersi, ed infine dall’illusione e dall’errore. È una realtà che non può essere definita ma che non è una visione negativa della realtà. Buddha non aveva interesse a definire il nirvana né come un annientamento né una realtà positiva.

Buddhismo: la rinascita perpetua

Secondo il Buddhismo la convinzione dell’esistenza della persona è frutto dell’ignoranza, ma è allo stesso tempo la conseguenza di una vita precedente vissuta nella convinzione di essere una persona. Sono dunque le convinzioni dell’uomo sul suo Karma che incatenano l’uomo nell’eterno ciclo delle rinascite. Iniziata una nuova esistenza, l’uomo compie esperienze che condizionano la sua coscienza e gli donano l’illusione di conoscere se stesso e la sua persona. L’Io non è altro che il nome che l’uomo dà a questo insieme di corpo e di sensazioni. A partire dalla sua nascita attraverso i suoi sensi l’uomo entra in relazione col mondo, ma compie un errore di valutazione perché lo considera come esterno e diverso da sé. Nella vita l’uomo prova sensazioni, alcune delle quali piacevoli. Queste creano il desiderio di riprodurle e di aumentarle in intensità e in durata. Tra tutti i desideri piacevoli il più forte è quello sessuale. L’uomo desidera vivere prolungando all’infinito la sua esistenza per poter godere di questi momenti soddisfacenti e così crea un vero e proprio attaccamento. È questo legame incatena l’uomo alla necessità di scegliere una nuova esistenza che tuttavia porterà con sé anche l’esperienza ineluttabile del dolore, della vecchiaia e della morte, proprio ciò che l’uomo voleva evitare per poter vivere per sempre. Nella Seconda Nobile Verità il desiderio (tanhâ) è indicato come la causa della sofferenza che deriva dall’ignoranza.

Il samsara

Solo gli atti coscienti compiuti volontariamente dall’uomo possono essere considerati alla stregua di semi che dopo un lungo periodo di maturazione hanno il potere di produrre frutti (phala). Fisicamente le azioni buone producono frutti buoni, mentre le cattive danno origine a frutti cattivi. Non c’è una forza, un’entità trascendente o una divinità che giudichi l’uomo. Si tratta piuttosto di una legge fatale che lega le azioni alle cause e le cause alle azioni. La ruota della vita (dhamaçatrapra-vastana) è l’immagine usata dal Buddha per esprimere le molteplici condizioni in cui è possibile rinascere: • Dio • Uomo • Animale • Essere infernale.

La scintilla vaga da un corpo all’altro

La scintilla che dà vita ai corpi viventi prima di estinguersi per l’eternità vaga da un corpo all’altro salendo o scendendo i pioli della scala delle reincarnazioni. Così nessun uomo ha diritto a contestare o a ribellarsi a causa della condizione che si trova a vivere perché è la conseguenza di un suo comportamento precedente. Se l’uomo afferra questo principio comprende anche che la prossima reincarnazione dipenderà dal valore degli atti morali che riuscirà a compiere in questa vita. Per i brahmani l’anima individuale è una scintilla che si reincarna da un corpo all’altro. Per il Buddha invece non ci sono elementi personali che trasmigrano da un corpo all’altro perché la sua persona, l’individualità non esiste. Tuttavia il Buddha ha sempre rifiutato di spiegare come le vite siano legate l’una alle altre se non esiste principio personale individuale. La sua risposta rimaneva piuttosto nel vago alludendo al fatto che chi nasce non è lo stesso di prima e non è neppure un altro.

Temere la morte?

L’uomo teme la morte come l’evento che lo priva della possibilità di vivere, tuttavia anche questa è un’illusione perché ciò che accade al momento del decesso non è diverso da ciò che avviene in ogni altro momento dell’esistenza. Per spiegare questo concetto sarà utile osservare una serie di fotografie di una persona scattate durante la sua vita. Si potrà costatare che ciò che l’individuo crede perpetuo non esiste giacché gli elementi che lo compongono in realtà mutano continuamente. L’individuo teme la morte perché la interpreta come l’annullamento di sé. Ma per Buddha l’essere individuale non esiste e quindi la morte non ha il potere di togliere qualcosa che già in partenza non possiede.

Reincarnazione brahmanica e reincarnazione buddhista

Da questo punto di vista possiamo notare una grande differenza tra il concetto di reincarnazione insegnato dai brahmani e quello predicato dal Buddha. Per i brahmani la reincarnazione è la trasmigrazione da un corpo all’altro dell’atman, l’anima personale. Per il Buddha invece non c’è trasmigrazione. Il samsara è una catena di rinascite impersonali legate a una linea di concatenamenti casuali. La legge del karma non vale solo per l’uomo, ma per tutto l’universo. Tuttavia questa legge non avrebbe un potere così determinante per l’uomo se non fosse lui stesso, con le sue convinzioni e rappresentazioni a dar vita al ciclo continuo delle rinascite. Solo l’uomo perciò ha il potere di liberarsi dal ciclo delle rinascite nel momento in cui sarà riuscito a raggiungere il nirvana.

Le risposte dell'Islam

L’uomo è un essere vivente creato da Allah. Il primo uomo si è lasciato tentare dal demonio e si è cibato dei frutti dell’albero proibito. Tuttavia ciò non ha lasciato conseguenze sull’umanità. Al momento del Giudizio solo i credenti potranno avere la certezza di essere ammessi nel Paradiso. Tutti gli altri saranno inghiottiti dalle fiamme dell’Inferno. Te ne occuperai in queste pagine.

VUOI FORSE CREARE CHI PORTERÀ LA CORRUZIONE E SPARGERÀ IL SANGUE SULLA TERRA?

“Il giorno che {Allah} decise di crearlo {l’essere umano}, comunicò questa Sua decisione agli angeli. Essi dissero: “Vuoi forse creare chi porterà la corruzione e spargerà il sangue sulla terra?”. {Allah} disse: “In verità, Io so ciò che voi non sapete. Insegnò ad Adamo tutti i nomi {tutte le realtà}. Quindi chiese agli angeli: “Ditemi ora i loro nomi”. Dissero: “Non v’è sapere in noi all’infuori di ciò che Tu Stesso ci hai insegnato {non possiamo imparare ciò che tu stesso non ci hai insegnato}”. Egli disse ad Adamo: “O Adamo, informali dei nomi di queste {cose}”; quando {Adamo} li mise al corrente dei nomi di quelle {cose}, Allah disse agli angeli: “Non vi avevo forse detto che Io conosco l’arcano dei cieli e della terra {conosco ciò che sicuramente non conoscete}, ciò che voi manifestate e ciò che tenevate nascosto?” (Corano, Sura al-Baqara, 2:30-33)

GLI HA DATO FORMA E HA INSUFFLATO IN LUI DEL SUO SPIRITO

È colui che ha perfezionato ogni cosa creata e dall’argilla ha dato inizio alla creazione dell’uomo, quindi ha tratto la sua discendenza da una goccia d’acqua insignificante, quindi gli ha dato forma e ha insufflato in lui del Suo spirito. (Corano, Sura as-Sajdah, 32:7-9)

IL COMPIACIMENTO DI ALLAH VALE ANCORA DI PIÙ

Ai credenti e alle credenti, Allah ha promesso i Giardini in cui scorrono i ruscelli, dove rimarranno in perpetuo, e splendide dimore nei giardini dell'Eden; ma il compiacimento di Allah vale ancora di più: questa è l'immensa beatitudine! (Corano, Sura at-Tawbah, 9:72)

L’islam

Secondo l’Islam l’uomo è un essere vivente creato da Allah che giunto al termine della sua opera, dopo averlo modellato e avergli donato il soffio, lo presenta a tutti gli angeli affinché gli rendano onore. Così avviene: tutti gli angeli onorano l’uomo, ma Iblis, destinato a diventare il demonio, un essere con cui l’uomo si dovrà misurare per tutta l’eternità, si rifiuta di obbedire. Dopo averli creati Allah costruisce per l’uomo e la sua compagna un bellissimo Giardino. In quest’oasi deliziosa Dio colloca la prima coppia invitandola a cibarsi di tutti i frutti prodotti dall’orto ad esclusione di quelli di un albero. È a questo punto del discorso che entra in gioco il demonio il quale li convince che Dio li tiene lontani dai frutti di quell’essenza poiché attraverso di essi è possibile ottenere l’immortalità. Se essi li mangiassero diventerebbero immortali proprio come Dio. La prima coppia cade nel tranello del demonio: avendo trovato piacevoli i frutti proibiti, ne mangia. In quel momento essi si rendono conto di essere nudi e cercano di coprirsi intessendo delle foglie per costruirsi cinture. È quest’azione scorretta del prima coppia che induce Dio a scacciarli dal Giardino e a prevedere per loro un’esistenza alquanto diversa da quella di cui avrebbero potuto godere. Tuttavia secondo l’Islam quest’azione scorretta non lasciò nessuna conseguenza sull’umanità. Dio infatti perdonò Adam nel momento stesso in cui, resosi conto dell’azione malvagia, chiese perdono al suo creatore.

Gli ultimi giorni

Il mondo che Dio ha creato non è destinato a durare per sempre: quando verrà l’ora sarà un avvenimento di cui tutti avranno consapevolezza perché al suono della tromba la terra tremerà. Sarà questo il momento in cui il mondo andrà in pezzi, le montagne andranno in frantumi e il cielo si spaccherà. In questo modo inizierà il giorno terribile della resa dei conti, momento spaventoso in cui tutti gli uomini saranno condotti davanti a Dio che li giudicherà (XXXVIII, 16 e 26; XI, 27). Le anime dei defunti saranno collocate su una bilancia e saranno pesate (VII, 8 e 9; XXI, 47; XXIII, 102 e 103). Il solo modo per essere certi di poter entrare in Paradiso sarà aver aderito in precedenza alla fede in Allah. Coloro che riusciranno ad entrare, potranno rimanere in questo luogo di delizie per sempre. Terribile sarà invece la sorte di chi non avrà creduto. Essi infatti saranno gettati per sempre nella Gehenna. La punizione dei musulmani che si saranno resi responsabili di peccati sarà dura, ma non eterna. Dio infatti nella sua giustizia non può punire tutti allo stesso modo, ma deve distinguere la pena concessa a un credente da quella di un non credente.

Il giudizio

I sunniti ritengono che Dio abbia il diritto di decidere la sorte degli uomini, destino che Allah stabilirà nel Giudizio Universale, momento in cui tutti gli uomini saranno giudicati e puniti per le loro azioni. Molti musulmani ipotizzano l’esistenza di in una specie di predestinazione. Prima del Giudizio Universale tuttavia Allah darà la possibilità a tutti gli uomini di convertirsi attraverso la missione di un predicatore. Questa figura avrà la responsabilità di convertire all’Islam tutti i popoli della terra. Ovviamente le forze del male si opporranno strenuamente alla sua predicazione e combatteranno accanitamente contro di lui, ma non riusciranno a prevalere. Sarà questo il momento in cui avverrà la fine del mondo.

Le ultime prove

Le prove per gli uomini non sono destinate a terminare con il Giudizio. Le anime dei defunti infatti dovranno camminare su un ponte più sottile di un capello e tagliente ed affilato come una lama di una spada. Camminare su questo ponte significa percorrere un cammino pauroso. Il ponte è infatti teso sopra il Golfo dell’Inferno: si tratta di un’ulteriore prova per stabilire il merito della persona. Chi non dimostrerà di essere degno di entrare in paradiso si mostrerà anche incapace di attraversare il Golfo, e le sue spoglie cadranno nelle fauci dell’Inferno. Nessuna speranza possono nutrire gli infedeli i quali non potranno ambire ad entrare in Paradiso ma saranno dopo la morte inghiottiti dall’Inferno (Sura 19 e 47). Lì condurranno addirittura un’esistenza da schiavi e le fiamme li bruceranno. I giusti entreranno, con chi sarà perdonato, in Paradiso, un luogo ricco d’acqua, fresco e felice. I fedeli, gli autentici religiosi, potranno godere anche di piaceri sensuali con bellissime fanciulle le huri (Sura 52) e potranno godere della visione di Allah. Morire prima del Giudizio Finale significa anche che il defunto dovrà attendere nella tomba, senza avere nessuna coscienza di ciò che sta accadendo. Solo chi è morto combattendo la guerra santa è privilegiato al punto da raggiungere immediatamente il paradiso.