Il termine della vita

La qualità della vita

Il concetto di qualità della vita nasce nel 1920 quando compare in un libro di Karl Ludwig Lorenz Binding, giurista, e Alfred Hoche, medico. Il libro si proponeva di offrire una giustificazione medica alla soppressione di vite umane partendo dal presupposto che, quando ci si trova in una determinata condizione, è meglio non nascere e, se si è nati, è meglio morire.
Secondo questa prospettiva, quando si verificano condizioni definite limitanti, la vita non varrebbe la pena di essere vissuta. Questa pretesa è pericolosa: elimina alla radice il concetto di dignità della persona perché chi si trova in questa situazione non può accampare diritti e la sua eliminazione non può essere considerata un omicidio.
Secondo Binding ogni individuo ha diritto all’autodeterminazione. Ciò tuttavia non vale in tre casi:
• in chi ritiene di essere oramai alla fine e chiede di essere eliminato;
• la quarta fonte comprende i doni che la persona ha o riceve attraverso la relazione con gli altri o con Dio.
• in chi ha un’incapacità di intendere e di volere, è incurabile e può subire l’eutanasia anche senza il suo consenso;
• in chi ha una buona salute psichica, ma ha lesioni fisiche di tale gravità che lo costringono a vivere una vita considerata miserabile.
Secondo questi due pensatori dovrebbe essere il medico, ossia chi dovrebbe incaricarsi di custodire la vita del malato, a doversi far carico dell’eliminazione fisica della persona. Inoltre si precisava che queste persone non essendo più produttive sono a carico della società che si assume l’onere economico del loro sostentamento.
Tuttavia, essi non valutano che ciclicamente tutti gli uomini, compresi gli stessi pensatori, si trovano nella situazione di dipendenza dagli altri, sperimentando prima o poi di essere ammalati e bisognosi. Sono addirittura giunti a sostenere che, poiché questi individui non provano sofferenza o poiché è possibile eliminarli evitando loro il dolore, è anche controproducente avere pietà di loro.
Questa matrice culturale rese possibile la sperimentazione nei lager nazisti, perché gli internati non vennero riconosciuti come persone. Va ricordato che il regime nazista iniziò il suo programma eugenetico proprio con l’eliminazione di minorati fisici e mentali. I medici condannati a Norimberga si appellarono a questa linea difensiva, non riconoscendo affatto la loro colpevolezza.
C’è chi si spinge fino ad affermare la possibilità di applicare l’eutanasia neonatale quando il neonato presenti malformazioni. Peter Albert David Singer ritiene che non solo tale atto non equivarrebbe a uccidere una persona, ma che non sia affatto sbagliato: questi bambini richiedono maggior tempo ed energie per essere accuditi e dunque sono considerati molto costosi. Ovviamente si tratta di un pensiero aberrante.

L’utile e il bene

È necessario prestare attenzione alla diffusa mentalità eugenetica che si manifesta attraverso l’uso delle espressioni «eugenismo, eugenetica democratica, dolce, morbida». La scelta della selezione viene fatta coincidere con le preferenze e scelte dell’individuo o, nel caso dei neonati, con le preferenze dei genitori. Il bene che si intende realizzare è l’utile per la società e, al massimo, l’assenza di dolore. Ciò che invece concerne le cure palliative o la sedazione del dolore viene solitamente nascosto.

Il dovere di cura…

Oggi, in Italia, si sostiene l’importanza dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente. Il medico è chiamato a informare il paziente usando parole che non traumatizzino pur nella loro verità, che lascino un margine di speranza, e che consentano alla persona di scegliere quali cure seguire. A tutti gli ammalati devono essere assicurate le terapie del dolore e la dignità personale anche evitando cure sproporzionate. Importante è sviluppare l’empatia che consenta al paziente di aprirsi col proprio medico.

…e il dovere di farsi curare

Al numero 65 dell’Evangelium vitae si sostiene che ogni uomo ha l’obbligo morale di curarsi e farsi curare. Tuttavia la cura può avvenire soltanto entro certi limiti che oggi difficilmente facciamo fatica ad accettare perché abbagliati dai progressi

Accanimento e abbandono terapeutico

L’accanimento terapeutico è il contrario dell’abbandono terapeutico in cui non solo si cessa con le terapie sproporzionate, ma non vengono neppure più prestate quelle ordinarie e palliative. Entrambe queste tendenze sono irrispettose della dignità della persona a cui deve essere assicurato il diritto a non soffrire. Oggi la medicina può consentire alle persone di non provare dolore. È bene ricordare che è indispensabile offrire le cure ordinarie vale a dire l’alimentazione e l’idratazione anche per via artificiale. Il paziente ha anche il diritto a non essere lasciato solo da parte di operatori sanitari, psicologi, ministri del culto, famiglia, amici, parenti e volontari. Inoltre l’ammalato deve essere costantemente aiutato a trovare un senso in ogni fase della vita.

La decisione di coscienza

Pensare alla propria morte crea angoscia ed è per questo motivo che l’uomo davanti a questa esperienza si sente perso. Tuttavia la morte è anche performativa della vita. Questa prospettiva aiuta la persona a strutturare se stessa tenendo conto di non essere infinita, ma di doversi confrontare con quel limite: si tratta di fare di quella circostanza un momento di verità e di libertà. La morte non si improvvisa, ma si prepara. Durante la sua esistenza, confrontandosi col dover morire, l’uomo riesce ad attribuire il giusto senso a tutte le esperienze. Il momento della morte sarà un attimo di verità e di scelta assoluta, quello che deciderà della veridicità o meno di ciò che si è vissuto perché lì non è più possibile mentire. È anche una circostanza in cui la persona consapevole della gravità della posta in gioco è ben vigile e tuttavia morirà proprio com’è vissuta.
Un filosofo del XX secolo sosteneva: «La morte può diventare un contrassegno della libertà. […]. Alla stregua di tutte le altre necessità, può essere plasmata razionalmente. […] Gli uomini possono morire senza paura se sanno che ciò che amano è preservato dalla miseria e dall’oblio. Dopo una vita piena possono decidere essi stessi di morire, in un momento determinato, per libera scelta» (Herbert Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1964). A primo avviso, questo ragionamento può apparire sensato: tuttavia è ben vero il contrario. Infatti il tentativo di decidere la propria morte cela la paura e l’incapacità di riuscire a viverla. Chi chiede di poter decidere della propria morte, volendo esercitare una scelta eutanasica di fatto non chiede di poter sperimentare la propria morte, ma di sostituirla con un’altra volendo modificare quella realtà.

L’eutanasia

Chi sostiene la legittimità dell’EUTANASIA ritiene non sia possibile imporre a una persona il dolore, un’esistenza che ha perso ogni senso e che offre alla persona una bassa qualità della vita. Per fare chiarezza è bene ricordare che il dolore, così come tutto ciò che si può verificare negli ultimi istanti della vita, non è morte. Per lenire il dolore si deve intervenire con una cura antalgica. I disagi della malattia terminale possono essere gestiti dalle cure palliative. Si è certamente obbligati ad intervenire per ridurre dolore e disagio e ciò fa parte del rispetto della persona. Ma non si può intervenire per far morire. La vita è sacra ed è dono di Dio. Questa affermazione significa che l’uomo non si può impossessare della vita e gestirla a suo piacimento.