Le grandi riforme

La teocrazia papale

Pontefici come Innocenzo III (papa dal 1198 al 1216) o Bonifacio VIII (papa dal 1294 al 1303) intesero con forza e chiarezza la loro autorità come dominio universale, perseguendo l’affermazione di una teocrazia papale: cioè della superiorità assoluta del loro potere di vescovi di Roma su ogni altro potere, istituzione o autorità del mondo. Innocenzo volle in particolare porsi come custode alto e superiore del potere imperiale, esercitando grande influenza politica negli anni della minorità di Federico II di Svevia. Bonifacio espresse il suo programma di teocrazia nella bolla Unam sanctam, opponendosi poi con forza ai sovrani di Francia, che rivendicavano invece per il proprio governo e per la loro Chiesa nazionale piena autonomia in materia ecclesiastica.

La cattività avignonese

Il pontificato di Bonifacio VIII si concluse in modo drammatico: il papa dovette infatti subire l’umiliazione di vedere nei fatti non solo ignorati ma addirittura negati dal re di Francia i principi di superiorità affermati nella bolla Unam sanctam. Alla sua morte, avvenuta sul finire del 1303, seguì un lunghissimo conclave, durato più di un anno, che si concluse con la nomina di un cardinale francese, Bertrand de Got, arcivescovo di Bordeaux, che prese il nome di Clemente V. Clemente, assai fedele ai voleri del re di Francia, non venne mai in Italia: assunse l’autorità pontificia lontano da Roma, e fece venire in Francia nella città di Avignone in Provenza, tutti gli ufficiali della curia. Da allora, per circa settant’anni, sino al 1377, il papato ebbe sede nella città francese. I papi che si avvicendarono furono tutti di origine francese, e tutti in qualche modo subirono l’influenza dei sovrani di Francia. Fu uno dei periodi di fatto più difficili per il papato, passato alla storia con il nome significativo di «cattività avignonese». Nel 1377 Gregorio XI, turbato dalle guerre e dalle contese che sconvolgevano l’Italia e ascoltando le forti esortazioni di santa Caterina da Siena, decideva di ritornare a Roma.

Lo Scisma d’Occidente

Ma la crisi della Chiesa di Roma, e con essa di tutta la Chiesa d’Occidente, continuò nei successivi decenni. Alla morte di Gregorio XI fu eletto di nuova un papa italiano, l’arcivescovo di Bari, che assunse il nome di Urbano VI. Ma subito dopo, alcuni cardinali francesi e altri italiani si riunirono ed elessero un altro papa, Clemente VII. Iniziava così lo Scisma d’Occidente, che sarebbe durato circa cinquant’anni. Le nazioni europee si divisero allora fra i due pontefici: con Urbano si riconobbe gran parte dei principati italiani, l’imperatore e il regno d’Inghilterra, mentre con Clemente VII la Francia, il regno di Napoli (su cui regnava un principe francese) e la Savoia. Si formarono allora due distinte gerarchie, due curie pontificie, due collegi di cardinali, che continuarono via via a eleggere nuovi «vescovi» di Roma: il disorientamento e la confusione della cristianità in Occidente, e le conseguenze ecclesiali furono enormi. Infine, grazie anche all’iniziativa del mondo laico e dei grandi principi europei, lo scisma tutto disciplinare e interno alla Chiesa fu ricomposto nel grande Concilio di Costanza: furono deposti i papi via via nominati e fu eletto un romano, membro dell’aristocratica famiglia dei Colonna, che assunse il nome di Martino V (1417).

Segni di cambiamento

Nel corso del XV secolo alcuni eventi di grande importanza contribuirono a rendere ancora più forti le esigenze di rinnovamento e di cambiamento anche all’interno delle comunità cristiane d’Occidente. In primo luogo il diffondersi della cultura umanistica e del Rinascimento: discipline come la letteratura, la storia, la filosofia suscitarono sempre maggiori interessi da parte degli studiosi, così come la voglia di approfondire la conoscenza della cultura e del pensiero dei grandi maestri del mondo classico, avvicinandosi a testi non solo scritti in latino, ma anche in greco e in ebraico. Fra i più grandi studiosi della seconda metà del Quattrocento è necessario ricordare Erasmo da Rotterdam, un intellettuale studioso delle sacre Scritture, sostenitore dell’urgenza di un rinnovamento radicale della gerarchia e del popolo cristiano, che doveva convertirsi per seguire con profonda decisione Cristo. Erasmo invitava a conformarsi non alla mentalità corrotta del mondo, ma alla «pazzia» degli insegnamenti evangelici, alla rivoluzionaria richiesta di conversione che Gesù stesso propone con le Beatitudini.

I fattori della crisi

Le alte gerarchie ecclesiastiche si componevano in gran parte di uomini di potere, protagonisti della vita politica del loro tempo, depositari di enormi ricchezze: non persone al servizio delle comunità di credenti ma capi di Stato, principi e generali, piuttosto che pastori e capi di comunità religiose. Le decisioni o gli interessi della Curia romana influenzavano molto tutte le sedi episcopali, ma anche le monarchie europee, che vedevano continuamente condizionata la propria autorità.
Faceva problema il fatto che il papa fosse spesso più occupato a governare come sovrano che a guidare come pastore la diocesi di Roma e la cristianità d’Occidente. Problema ancora più grave era la diffusa corruzione di esponenti delle alte gerarchie, di parte del clero e dei religiosi, che si rifletteva in un decadimento morale della vita dell’intero popolo cristiano. Compravendita di cariche ecclesiastiche e nepotismo facevano in molti casi accedere alle alte cariche ecclesiastiche membri non degni, creando vescovi, cardinali e abati bambini o adolescenti, che poi vivevano come laici.

Le indulgenze

Fin dai primi secoli del cristianesimo si era affermata la pratica del «libretto di indulgenza»: una persona di provata fede cristiana (in origine si trattava di un confessore, cioè di un credente che aveva confessato dinanzi al tribunale romano la propria fede) scriveva al vescovo chiedendo di indulgere nei confronti di un peccatore pentito, riducendogli un po’ la penitenza per dimostrare a sé e alla comunità il proprio pentimento.
Con il tempo quest’uso degenerò: a poco a poco si affermò il principio che si poteva «acquistare» o «guadagnare» quasi automaticamente l’INDULGENZA anche solo facendo un’offerta alla Chiesa per le necessità dei poveri: la penitenza, fatta di preghiere, digiuni, elemosine, servizio ai bisognosi veniva così condonata, in tutto o in parte. La pratica si diffuse e con essa una sorta di mentalità quasi fiscale e amministrativa della vita spirituale: «Se pago una tassa alla sua Chiesa, Dio mi “sconta” la pena per i miei peccati!». Pratiche come questa favorivano il diffondersi di un atteggiamento non evangelico, quasi di superstizione.

Lutero contro Roma

Fu proprio la predicazione dell’indulgenza la causa scatenante della predicazione di Martin Lutero, che sarà all’origine della più profonda divisione all’interno della Chiesa d’Occidente. Martin Lutero, monaco agostiniano tedesco, professore di Sacra Scrittura presso l’Università di Wittenberg, in Germania, venne a conoscenza della predicazione e della «vendita» di indulgenze che papa Leone X aveva autorizzato nei territori sottoposti all’arcivescovo di Magonza, Alberto di Hohenzollern. Informato dello stile di predicazione del domenicano Johann Tetzel e sdegnato dai modi e dai contenuti, elaborò 95 tesi di critica e di condanna di numerosi comportamenti autorizzati o tollerati dalla Chiesa di Roma. Erano evidenti non solo la condanna della pratica della vendita delle indulgenze, ma anche la messa in discussione della stessa legittimità della gerarchia, dal vescovo di Roma al semplice sacerdote. Cristo solo, infatti, veniva riconosciuto come unico sacerdote universale presso il Padre. Ogni battezzato ha dignità sacerdotale e può regolare i suoi rapporti direttamente con Dio, senza bisogno della gerarchia.

Le prese di posizione di Lutero

Nel pensiero di Lutero molte erano le prese di posizione contro la tradizione della Chiesa e del magistero e netta l’affermazione che non ci si salva per le buone opere, ma solo per la grazia di Cristo e la volontà di Dio Padre.
Le Tesi ebbero enorme diffusione in tutta la Germania. Seguirono mesi, poi anni di tensioni sempre più crescenti, di ammonizioni a Lutero e di richieste di ritrattazione. Ma più il tempo passava e più di fatto Lutero inaspriva e strutturava le sue critiche e il suo sistema di pensiero, e più cresceva il consenso intorno a lui, più Roma preparava la condanna.
Nel 1520, con la bolla Exsurge Domine papa Leone X condannò per eresia Lutero, che rispose bruciando pubblicamente il documento pontificio sulla piazza di Wittenberg, procurandosi così la SCOMUNICA. Nel 1521, Lutero fu invitato a presentarsi alla Dieta (riunione dei prìncipi laici ed ecclesiastici e dei rappresentanti delle città dell’impero, alla presenza di Carlo V) per discolparsi: invece ribadì il proprio pensiero, e fuggì.

La teoria di Lutero

Questi gli elementi fondamentali del suo insegnamento:

• la Bibbia è punto di riferimento unico e fondamentale per la vita di fede del credente, deve essere letta e conosciuta e studiata nella lingua di ciascun popolo;

• la Parola di Dio può essere liberamente interpretata da ciascun credente e o comunità, senza necessità di intermediazioni ecclesiastiche: è sufficiente uno studio corretto e attento, e l’aiuto stesso della comunità e dei suoi «pastori»;

• i sacramenti autentici sono solo due, il battesimo e la Cena del Signore; nell’eucaristia non sono presenti realmente il corpo e il sangue di Cristo, ma solo come segno della presenza del divino in tutta la creazione;

• l’uomo si salva solo per la fede, non per le sue buone opere: è la fede che giustifica, cioè rende giusto, il credente per i meriti di Gesù Cristo. L’unica cosa richiesta al singolo credente è la fede in Dio. La salvezza del singolo non dipende da ciò che egli può fare di bene, ma solo dal giudizio imperscrutabile (non conoscibile, né comprensibile) di Dio;

• nessuno dunque può guadagnarsi o comprare la salvezza, il perdono dei peccati o l’accesso in paradiso, men che meno con la pratica delle indulgenze.

Il calvinismo

Sull’onda del successo degli insegnamenti di Lutero, altri riformatori religiosi dettero vita a nuove comunità cristiane. In Svizzera Ulrico Zwingli fondò comunità ispirate alla dottrina luterana, ma autonome e per certi aspetti più moderate. Sempre in Svizzera, si diffusero comunità riformate chiamate degli anabattisti, che consideravano non valido il battesimo amministrato ai bambini, e imponevano un nuovo battesimo da adulti, volendo costituire comunità radicali di santi e di puri, prive di ogni forma di gerarchia e organizzate rispettando la più assoluta uguaglianza sociale.
Sempre in Svizzera, la città di Ginevra doveva diventare centro di diffusione di un’altra importante Chiesa riformata, quella che prese il nome dal teologo francese Giovanni Calvino (1509-1564). Calvino condivideva gran parte delle dottrine di Lutero, ma elaborò una sua originale visione teologica.

La Chiesa anglicana

Nel giro di pochi decenni, le Chiese riformate luterane e calviniste si diffusero in gran parte dell’Europa centro settentrionale: importanti comunità si stabilirono anche in territorio francese, nel Regno di Polonia e nel Regno di Scozia. Per iniziativa di re Enrico VIII Tudor (già strenuo difensore della fede cattolica), il regno di Inghilterra nel 1534 con l’Atto di Supremazia si costituì – per motivi chiaramente politici – in Chiesa separata da Roma (Chiesa anglicana). La monarchia si impossessò dei grandi beni delle istituzioni cattoliche e nell’arco di alcuni decenni venne organizzandosi secondo i modelli della Riforma: si introdusse il matrimonio dei sacerdoti, si soppressero conventi e monasteri, si semplificò il rito della santa messa, si abolirono l’uso del latino e il culto dei santi e della Vergine.
Gli appartenenti alle Chiese riformate presero il nome di «protestanti» perché insieme, rappresentati dai principi tedeschi che avevano aderito al luteranesimo, protestarono in una lettera a Carlo V nel 1529 la propria fede e si espressero contro la decisione della Dieta di Spira di confermare i decreti di condanna contro Lutero. Il termine divenne di uso comune a partire dalla metà circa del Cinquecento per indicare l’insieme delle Chiese d’Occidente separate da Roma.

La Riforma cattolica

Nelle comunità cattoliche si fece via via sempre più forte e matura l’esigenza di rinnovamento, che in origine aveva orientato l’opera intellettuale di Erasmo da Rotterdam e di molti riformatori.
Dal basso, e cioè dal popolo cristiano nacquero allora molte associazioni laiche e religiose che si dedicarono a opere di carità, alla diffusione del Vangelo, all’istruzione dei più poveri, alla assistenza di vedove e orfani. Nacquero anche nuovi importanti ordini religiosi.
Il più famoso è sicuramente la Compagnia di Gesù o gesuiti, fondata nel 1534 dallo spagnolo Ignazio di Loyola (1491-1556) e poi approvata da papa Paolo III nel 1540. Ignazio volle costituire una comunità di sacerdoti votati alla difesa dell’ortodossia cattolica, di grande preparazione culturale (si entrava nella Compagnia dopo non meno di undici anni di studi superiori) e fedelissima al magistero pontificio. I gesuiti fondarono comunità, collegi per l’educazione dei figli dei nobili e scuole per i più umili: molti loro membri entrarono nelle corti dei monarchi cattolici, ricoprendo importanti incarichi politici e culturali. I gesuiti svolsero anche un’intensa attività missionaria sia in Asia sia nelle Americhe.

Il Concilio di Trento

Fin dalla prima diffusione delle dottrine di Lutero, molti esponenti di rilievo della Chiesa di Roma invocarono la convocazione di un concilio ecumenico, aperto anche ai dissidenti, per discutere le grandi importanti questioni poste dai riformatori tedeschi e giungere, per quanto possibile, alla composizione delle divisioni che si stavano manifestando. La convocazione del Concilio fu più volte rimandata, anche per ragioni politiche. Infine papa Paolo III, nel 1545, riuscì a convocare l’assemblea: come sede del Concilio fu scelta la città di Trento, in un territorio ai confini – geografici ma anche culturali – fra il mondo tedesco e il mondo italiano.
Al Concilio furono invitati anche i rappresentanti delle Chiese protestanti, che però rifiutarono di partecipare, per due ragioni fondamentali: non intendevano riconoscere il primato di onore e di autorità del papa; non volevano partecipare a un’assemblea di soli vescovi o religiosi, difendendo invece l’esigenza di far partecipare anche laici, secondo il principio luterano che afferma la dignità sacerdotale di ogni credente battezzato.
Il Concilio rimase quindi ristretto al mondo cattolico: il che favorì di fatto la sua funzione di evento rinnovatore e riformatore della Chiesa di Roma, e di tutta la quotidiana pratica di vita dei credenti. Il Concilio subì diversi rallentamenti, sospensioni e riprese: tre furono le sessioni principali – la prima fra 1545 e 1547, la seconda fra 1551 e 1552, la terza fra 1561 e 1563 – che comunque comportarono circa diciotto anni di discussioni, di trattative, di elaborazioni.
Il Concilio, di fatto, rifiutò nel loro complesso tutte le dottrine sviluppate dal luteranesimo, dal calvinismo e più in generale dai teologi della Riforma. Le sue decisioni riguardarono sia la ridefinizione di importanti questioni dottrinarie, sia la disciplina del clero.

Profondi cambiamenti

L’insieme delle decisioni comportava profondi cambiamenti nella vita della Chiesa cattolica, e ne definiva il profilo religioso e spirituale in modo da imporre ai sacerdoti e ai religiosi, come ai laici, un modello di vita adeguato alle esigenze del Vangelo. Il Concilio definiva un clero più preparato culturalmente e più sensibile alle esigenze di formazione spirituale delle comunità; auspicava che i vescovi fossero realmente pastori d’anime vicini alle proprie comunità e modelli di santa vita cristiana; voleva provvedere, attraverso i catechismi, a formare in modo capillare e diffuso le coscienze dei cristiani ai principi evangelici, contrastando superstizione e deviazioni; incoraggiava in ogni modo esperienze di vita orientate al servizio della comunità, a buone pratiche di carità, alla preghiera e all’apostolato.

Le guerre di religione in Europa

Negli ultimi decenni del XVI secolo e nei primi del successivo XVII secolo, l’Europa fu sconvolta da sanguinose e devastanti guerre di religione che contrapposero cattolici e protestanti soprattutto in Francia, nei Paesi Bassi, in Germania e in Boemia. Si trattò di conflitti anche di natura politica con obiettivo egemonico, cioè per definire chi dovesse avere il dominio politico, economico e culturale in determinate regioni, o nazioni, o più in generale sull’intero continente. Furono decenni molto complessi, e i conflitti lasciarono tracce e ferite profonde, soprattutto in alcune regioni: la Germania, in particolare, uscì dal lunghissimo periodo della Guerra dei trent’anni, con ampie zone completamente devastate e spopolate. Nel nome della fede, i cristiani si erano violentemente combattuti, e senza esclusione di colpi. E solo dopo moltissime sofferenze e lutti, le ragioni della pace e della riconciliazione ebbero la meglio.

Nuovi mondi e nuovi popoli

Nel corso del XVI secolo, audaci navigatori al servizio di Spagna e Portogallo, di Francia e Inghilterra, compirono straordinarie imprese marinare – di navigazione e di esplorazione. Al di là di vasti oceani, nuove terre si presentarono agli Europei, con molti popoli da conquistare e con immense ricchezze da depredare. È quello che avvenne, in particolare, ai danni dei popoli dell’America Centrale e Meridionale prima, dell’America del Nord e dell’Oceania poi.
Al seguito degli esploratori giunsero i conquistatori che, al servizio dei sovrani europei, occuparono e facilmente conquistarono con pochi uomini vastissimi territori e popoli numerosi.
Al seguito dei conquistadores giunsero anche sacerdoti e religiosi – soprattutto francescani e domenicani, poi ben presto anche gesuiti – con l’intento di evangelizzare e battezzare le nuove genti conosciute e conquistate dagli europei.
Tutti questi popoli erano politeisti, adoravano le forze della natura in forma di dèi antropomorfi, e avevano complessi miti astrali. Dal punto di vista dei cristiani europei erano dunque pagani, e considerati anche selvaggi e primitivi, ben diversi dai popoli dell’Asia Centrale, dell’India o della Cina, noti in Occidente per le loro raffinate civiltà. Si discusse addirittura se potessero essere considerati umani e quindi anche «naturalmente» destinati alla schiavitù e al servizio dei popoli più evoluti e civilizzati. La Chiesa, sin da subito, si oppose a queste discriminazioni: eppure al suo interno non mancarono voci che indussero a costruire una mentalità razzista e discriminatoria.
Certo è che i popoli del Nuovo Mondo sottomessi dagli europei subirono molte violenze e sopraffazioni. I missionari – e fra di loro molto presto si distinsero i gesuiti – cercarono comunque, per quanto possibile, di far riconoscere a queste popolazioni dignità, rispetto e migliori condizioni di vita. I missionari dovettero industriarsi intanto a comunicare con gli indios, utilizzando quella che fu definita lengua general, una sorta di lingua franca, un idioma iberico con molte contaminazione delle lingue locali: in questa lingua si stabilivano i primi fondamentali rapporti di convivenza e di relazione, e poi si procedeva a poco con l'evangelizzazione.
In molti casi, su pressione dei governi della madre patria, si procedette anche a conversioni forzate. Un’autentica cristianizzazione si ebbe dopo molti decenni, talvolta dopo secoli, e mantenne comunque vivi alcuni forti caratteri culturali originari.

Missionari e pastori

Non mancarono luminose figure di missionari e di pastori che tanto fecero davvero, con coraggio e abnegazione, per il bene dei popoli indios. Fra tutte queste personalità è necessario ricordare Bartolomé de Las Casas (1474-1566), teologo domenicano, vescovo e missionario. Egli viaggiò molto per missioni in America, e riconobbe con intelligenza quanto le popolazioni originarie di quei territori fossero costituite in grandissima maggioranza da persone di animo mite e pacifico, intelligenti e operose. Bartolomé denunciò, senza mezzi termini, la situazione e nel 1552 pubblicò la sua famosa Brevissima relazione della distruzione delle Indie, che molto impressionò la più colta opinione pubblica europea. Ma già da tempo era riuscito a far arrivare alla Corte di Spagna la sua voce, e l’imperatore Carlo V si era convinto a emanare nel 1542 le Nuove Leggi per le Indie, che proibivano di schiavizzare, fare violenza o uccidere le popolazioni indigene.

Purtroppo solo l’azione di coraggiosi missionari riuscì in molte occasioni a difendere dignità e diritti delle popolazioni indie. Dall’altra parte del mondo, in India e in Cina, operarono i missionari gesuiti italiani, spagnoli e portoghesi. In India vennero fondate diverse comunità e centri di missione, da cui partirono missionari diretti verso l’Estremo Oriente, la Cina e il Giappone. È importante ricordare l’Italiano Matteo Ricci (1552-1610), che nell’arco di alcuni decenni, fra il 1582 e il 1610, fu missionario in Cina, affrontando ogni genere di difficoltà. Colto e di grande apertura culturale, seguì il principio di «farsi cinese in mezzo ai cinesi»: imparò perfettamente il cinese mandarino e con instancabile attività di relazione, di studio, di ricerca scientifica, riuscì a farsi sempre più apprezzare dalla gente comune e dall’élite sociale del Celeste Impero. Si distinse come geografo e scienziato, traduttore e scrittore di opere in cinese: fu così stimato da ottenere per sé e i suoi compagni la possibilità non solo di predicare, ma anche di celebrare pubblicamente il culto cristiano. Fondò numerose residenze gesuitiche, e finalmente fu invitato a Pechino e poté risiedere presso la Corte imperiale. Morì onorato e rispettato e la sua memoria è ancora oggi in Cina oggetto di rispetto e di grande apprezzamento. Con lui, che arrivò a convertire diverse migliaia di cinesi, il cristianesimo ebbe la possibilità di avere una presenza non trascurabile in quella grande nazione.